Le ragioni della pace

Pubblicato il 13-10-2023

di Redazione Sermig

Non basta dire no alla guerra e alle armi.
Per farsi strada, la pace deve diventare una scelta culturale e politica, alimentata damotivazioni e ideali.
Il Sermig e i giovani dell'Arsenale della Pace cercano di farlo da tanti anni.
Un cammino da condividere...

Le foto di Marco Rossi che accompagnano questo documento sono state scattate durante la missione umanitaria del Sermig alla fine dello scorso giugno.

LA NOSTRA STORIA
Era il 2 agosto del 1983 quando entrammo per la prima volta nel rudere del vecchio arsenale militare di Torino, la fabbrica da cui uscirono gran parte delle armi usate nelle guerre del Risorgimento e nelle due guerre mondiali. Quel luogo era annerito dal tempo e da un passato di morte e distruzione. Noi eravamo un piccolo gruppo di ragazzi, molto inesperti. Non avevamo una lira, ma come diciamo sempre, avevamo un sogno. L’Arsenale della Pace grazie a milioni di persone che hanno restituito tempo, risorse, professionalità, ci ricorda – ieri come oggi – che la pace non è un sentimento, un sorriso, uno slogan da gridare nelle piazze, ma un fatto di giustizia, una scelta del cuore e dell’intelligenza, una buona notizia da annunciare instancabilmente con le proprie scelte di vita. Siamo convinti che quanto avvenuto tra le sue mura, possa avvenire anche nella vita di ognuno di noi, nella società, nelle relazioni tra gli Stati. È possibile! È possibile trasformare il male in bene! È possibile trasformare il conflitto più atroce in un cammino di speranza! È possibile non farsi fermare dagli errori personali, dalle delusioni, dalla fatica, anche dal dolore! Certo, non è automatico. Serve tempo, ma camminando insieme, lentamente e decisamente, la pace è alla nostra portata. Oggi parlare di pace è difficile.
Abbiamo davanti a noi scene di guerra, viviamo in un’epoca di corsa al riarmo a tutti i livelli, un’epoca di profonde divisioni. Chi crede nella pace, agli occhi di tanti sembra un ingenuo, uno che va dietro a buoni sentimenti e a ricette facili. Non è così. Anzi, è l’esatto contrario.
Proprio nei momenti più difficili, chi crede in un ideale deve sentire la responsabilità di proclamarlo con ancora più passione. Non dobbiamo fermarci a un presente apparentemente senza speranza, ma immaginare oltre, sognare e impegnarci per costruire quello che ancora non è. Chi rimane fermo all’oggi rischia di fermarsi al dito e di non vedere la luna, chi invece vede oltre non perde tempo ad alimentare utopie, ma intuisce la forza e la bellezza delle profezie, difendendo le ragioni del bene. Per costruire la pace servono realismo, creatività e ideali, dimensioni che devono stare in equilibrio perché l’analisi della realtà non cada mai nel cinismo e l’idealismo non diventi l’alibi per cullarsi in fantasie irrealizzabili.

IL DATO DI REALTÀ
Fare i conti con la realtà richiede un confronto senza sconti con un mondo segnato da molte guerre.
Uno scenario complesso, con tanti fattori in gioco perché una guerra non è mai uguale all’altra, cambiano il contesto, i punti di vista, la prospettiva.
Nelle guerre di aggressione, per esempio, è lecito anche moralmente il diritto all’autodifesa di chi è aggredito.
Detto questo, rimane una verità di fondo, ribadita recentemente anche da Edgar Morin. Ricordando le guerre vissute in prima persona, a cominciare da quella contro il nazismo, il grande filosofo e pensatore francese elenca le barbarie del regime di Hitler, lo sterminio di ebrei e oppositori, ma anche la violenza cieca dei bombardamenti alleati sulle città tedesche, la distruzione totale, le decine di migliaia di donne, bambini e anziani uccisi. Morin non mette tutto sullo stesso piano, va oltre la politica, puntando diritto all’umanità. Arrivando a dire con estrema lucidità che «per quanto giusta fosse la guerra al nazismo, la guerra del Bene comporta in sé del Male». Sia chiaro, ogni guerra. Con effetti sempre uguali legati a quella che Morin definisce un’isteria contrapposta a «ogni conoscenza complessa e a ogni contestualizzazione».

LE ARMI UCCIDONO
Per questo, al di là delle contingenze e della complessità del presente, dobbiamo avere il coraggio di dire con chiarezza che le armi non devono essere più costruite.
È il cuore della profezia di Isaia, l’annuncio di un tempo in cui i popoli non si eserciteranno più nell’arte della guerra e le armi saranno trasformate in strumenti di lavoro. La riconversione dell’Arsenale della Pace ne è stato un riflesso.
Dire no alle armi sembra uno slogan banale, in realtà è un concetto elementare.
Le armi uccidono e lo fanno più volte:
- la prima perché sottraggono risorse alla sanità, allo sviluppo e all’istruzione.
- la seconda perché impegnano intelligenze che potrebbero essere impiegate nella ricerca per migliorare la qualità di vita delle persone.
- la terza perché uccidono senza distinzioni militari e civili, giovani e vecchi, donne e bambini.
- la quarta perché lasciano sul campo solo distruzione: strade, case, scuole, ospedali, creando milioni di sfollati, disintegrando il presente e il futuro dei più giovani e dei più fragili.
- la quinta perché affamano la popolazione.
- la sesta perché perpetuano la logica della violenza che alimenta la vendetta e propone nefaste e ideologiche manipolazioni della verità dei fatti.
- la settima perché gli ordigni bellici seminati durante una guerra causano invalidi e mutilati anche a distanza di decenni.
- l’ottava perché distruggono l’ambiente provocando danni all’intero ecosistema.
- la nona perché la violenza sfigura, disumanizza l’uomo, autorizzandolo a compiere qualsiasi brutalità sul nemico.
- la decima perché i reduci, vittime e carnefici, si portano dentro e addosso le ferite degli orrori subiti e commessi e la loro vita smette di essere vita.

LE PERSONE
“Credo nella pace, perché ho visto la guerra”.
Chi è testimone delle atrocità di un conflitto non ha dubbi, cambia dentro, ha la possibilità di indicare la strada e di ricordare che la guerra non può essere ridotta all’analisi di numeri e strategie. È necessario partire dalle persone, dalle loro storie, dal loro dolore, che viene prima della diplomazia e della geopolitica. Le vittime di ogni guerra sono persone come noi, con una vita normale che è stata travolta.
L’empatia può diventare la chiave per mettersi nei loro panni, per fare propria la sofferenza e trasformarla in azione.
Perché anche la commozione rischia di diventare inutile se non indica una direzione di cambiamento.
Oggi abbiamo molti più strumenti e possibilità per conoscere il punto di vista delle vittime che devono tornare al centro di ogni riflessione sulla guerra. Lo ripetiamo: prima le persone! Ma davvero!
Quando si assume questa prospettiva, la logica distorta della guerra e dei suoi interessi si mostra con chiarezza. Emerge il coagulo di interessi legati alla compravendita delle armi, lo squilibrio inaccettabile tra le spese per gli armamenti e i fondi destinati allo sviluppo, le ripercussioni economiche dei singoli conflitti. Lo abbiamo visto nel caso della guerra in Ucraina rispetto alle esportazioni di grano e materie prime. Il conflitto ha avuto un riflesso pesantissimo su Paesi anche lontani che da sempre facevano affidamento sulle importazioni di beni alimentari. Così la dinamica dei prezzi. Non si esagera a dire che in un mondo interconnesso anche una guerra regionale può affamare e uccidere a migliaia di chilometri di distanza.

LA GUERRA DELLA MEMORIA
La scia di vittime di una guerra non si limita tuttavia a chi muore sotto le bombe o a causa di squilibri economici. L’eredità delle guerre è antica e sempre uguale: odio, divisioni, memorie contrapposte, ferite personali da rimarginare, anche quando le armi tacciono e la diplomazia riafferma a parole il valore della pace. La guerra uccide la verità, riduce la ricchezza dell’umano ai ruoli di vittime e carnefici, impedisce per tempi lunghissimi la possibilità di andare oltre.
La guerra ruba la compassione, paralizza la memoria, perpetua l’odio in una sorta di zona grigia che sposta i campi di battaglia direttamente nel cuore delle persone. Scardinare queste logiche è difficile, ma possibile, a ogni livello. Anche memorie contrapposte possono riconoscersi a vicenda.

UNA CULTURA DI PACE
La pace per farsi strada deve diventare anche una scelta culturale, una mentalità, un pensiero da coltivare, quasi da allenare, partendo già dalla scuola. È importante sostenere gli slanci dei bambini e dei giovani, i loro sogni di cambiamento che sono come semi da proteggere e coltivare con cura, perché possano fiorire. Abbiamo il diritto di immaginare e realizzare quello che al momento sembra impossibile, condividendo idee, visioni, possibili soluzioni, in modo molto concreto. Perché pace significa impegnarsi anche per un mondo più giusto in cui tutti possano avere una vita dignitosa, un lavoro, una casa, l’istruzione, cure accessibili.

ISTITUZIONI E POLITICA: LA FORZA DEL DIRITTO
Se cresceremo in questa cultura, allora sarà più facile fare della pace anche una scelta politica, in grado di riaffermare la forza dello Stato di Diritto. Significa sostenere e rilanciare la visione e il “mai più” nati dopo i cinquanta milioni di morti della Seconda guerra mondiale. L’idea di un nuovo ordine che mettesse al bando la guerra, con l’organizzazione delle Nazioni Unite a fare da garante. In quel momento l’umanità riuscì a definire almeno sulla carta il divieto dell’intervento armato da parte di uno Stato sovrano nei confronti di un altro Stato sovrano. Un principio chiaro che nei decenni si è scontrato con limiti e incoerenze, ma che va difeso come baluardo della legalità internazionale. Per farlo servono istituzioni forti e credibili, un “pacifismo giuridico” che superi gli Stati nazionali in funzione di un’entità sovrastatale a cui rimettere la risoluzione delle controversie, come l’ONU. La stessa Unione europea è nata per fermare i conflitti tra i suoi stati membri e ci è riuscita, facendo del Diritto lo strumento di propagazione della pace. Al tempo stesso, politica e diplomazia devono riprendersi il loro spazio, perché l’unica alternativa è che sia la guerra a occuparlo. Anche per questo servono giovani appassionati, disposti a formarsi, a studiare, a dare testimonianza, con un impegno in più a rinnovare la forza della democrazia, riempiendola di contenuti, motivazioni, ideali. Mai come oggi, non possiamo darla per scontata. Così il valore della cooperazione e del multilateralismo, orizzonti da cui il mondo di oggi sembra allontanarsi, ma che è urgente riaffermare, elaborando idee e soluzioni nuove, soprattutto in vista di un futuro e progressivo disarmo.

LA SCELTA DEL PERDONO
Credere nella pace significa difendere anche le ragioni del perdono, un cammino che riguarda tutti, non solo chi è sostenuto dalla fede. È la capacità di ridare dignità anche a chi compie il male, nella convinzione che nessuno può essere relegato all’atto peggiore che ha compiuto, perché tutti possiamo cambiare e migliorare. Non esistono automatismi e il percorso può durare molti anni. Il primo passo è rendersi conto che l’odio, lo spirito di vendetta e il rancore sono sentimenti umanissimi che tuttavia fanno male a chi li prova, bloccano cammini, incatenano l’amore, chiudono le porte al futuro. Il perdono va nella direzione opposta, è un oltre impossibile da vedere nel momento del dolore fisico e spirituale, nella delusione e nel tradimento. La condivisione umana, insieme alla giustizia, è una chiave. Non serve essere dei supereroi per perdonare. È sufficiente la propria umanità, ma bisogna volerlo e cercare segni di bene e di speranza lungo il cammino. Chi crede, può pensare che Dio abbia già perdonato al suo posto e che sia pronto a dare a chi soffre il tempo del cammino per poter perdonare a propria volta. L’impegno di questa ricerca continua riguarda i singoli, ma anche la società nel suo insieme. Il perdono, del resto, è come un ponte: chi ha sbagliato cammina da un lato per ottenerlo, chi ha subito cammina dall’altro per donarlo. Ci si può incontrare e abbracciare solo a metà strada. Ma è difficile farlo da soli. Per fasciare un'interiorità ferita serve la vicinanza di una comunità, un’elaborazione collettiva, una cultura di riconciliazione che partendo dal dolore delle vittime, accetti anche la logica di una gradualità. E soprattutto ricerchi la giustizia, una delle forme più alte d'amore, strumento per condannare il male, ma salvare sempre anche le persone: responsabili e vittime. È una mentalità che non vuole distruggere, ma fa di tutto per ricreare nuove relazioni e percorsi di espiazione, facendo emergere nuove generazioni pronte a ricostruire.

UN NUOVO SGUARDO SULLA STORIA
Si diventa costruttori di pace quando si impara a leggere la storia del mondo e dell’umanità con lo sguardo giusto, con l’equilibrio che permette di cogliere i segni dei tempi di cui parla anche il Vangelo.
Significa andare oltre letture estreme e polarizzate, non stare al gioco di chi crede nel mito di un inarrestabile progresso verso il bene e di chi al contrario mitizza il passato contro un presente e un futuro di decadenza. La terza via è vedere in ogni epoca la compresenza di bene e male, come due dimensioni che crescono insieme e che l’uomo nella sua libertà può alimentare.
È la meraviglia e l’abisso di ogni scelta, il rischio di ogni generazione, il limite della natura umana e della sua volontà di dominio. È su questo punto che ci si gioca la pace, scegliendola, vigilando, coltivando anche una dimensione interiore, etica e spirituale, una profondità che non riduca l’impegno dell’uomo a un semplice qui e ora, che sappia riconciliarlo con la chiamata ad amare e a essere amato. Se credente, a vedere nella Parola di Dio un messaggio di speranza per orientarsi nel cammino della vita personale e sociale, una domanda per mettersi in discussione, cambiare e costruire così un mondo migliore.

A SERVIZIO DELLA PACE
Se daremo la vita per questo impegno, diventeremo indomabili, sentiremo l’urgenza di non tacere, testimonieremo che l’umanità può rinascere, perché ognuno di noi è pronto a farlo. E allora, prepariamo la pace con la forza delle nostre scelte, dei nostri gesti, del nostro pensiero. Difendiamo le ragioni della pace senza paura! Chiediamolo prima di tutto a noi stessi: “Pace, che cosa posso fare per te?”. Una domanda apparentemente piccola che però può cambiare il mondo. Non è un’utopia.
È profezia alla nostra portata. Da vivere. Semplicemente.
 

A cura della redazione
Focus - Prepariamo la pace
NP agosto / settembe 2023

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