Le persone prima di tutto

Pubblicato il 08-06-2023

di Redazione Sermig

Se c’è un motto che guida il lavoro di Giammarco Sicuro è questo: “Prima le persone”.
La regola che lo ha guidato sempre in questi anni da inviato in prima linea. Dall’Afghanistan all’Ucraina, dall’America Latina alla Corea del Sud: cambiano i temi, i contesti, le situazioni. Ma non quello sguardo, l’unico capace di dare un senso alla professione.
Sicuro ha appena compiuto 40 anni, dal 2008 è un giornalista della Rai.
Negli ultimi tempi, ha seguito in particolare la tragedia del conflitto ucraino. «Questa guerra – spiega – ha rimesso al centro l’importanza di esserci, di raccontare sul campo per mostrare a chi è lontano cose che non si possono vedere».

Cosa significa informare in un contesto di guerra?
Avere la forza di mettersi al livello della povera gente, provando ad assorbire in qualche modo il loro dolore, la loro sofferenza. Questa empatia è l’unico strumento per incontrare gli altri, per raccontare e diffondere un messaggio. Per questo credo che si debba sempre partire dalle persone che vengono prima della diplomazia e delle analisi geopolitiche. La guerra non può ridursi a un grande gioco di carrarmatini, di jet, di numeri, di cifre di soldati e di vittime. La mia missione è raccontarla anche nei suoi aspetti più crudi e più umani, per non far dimenticare che Anna, Vladimir o chiunque altro si trovi in quella situazione in realtà rappresenti tutti noi. Sono persone che fino a ieri avevano una vita normale come la nostra, molto simile alla nostra.

Per esempio?
Mi vengono in mente tante storie di vita che potrebbero arrivare benissimo dalla provincia di Torino, oppure dalla Toscana, da Roma, da qualsiasi parte in Europa. Storie sempre uguali: la casa distrutta, la villetta con il garage accanto e una macchina incendiata da un missile.
Oppure case vuote perché chi le abitava è morto, scappato, ferito o chissà. E tu cominci a pensare che magari aveva contratto un mutuo, investito i risparmi. Pensa che lì fino a poco tempo prima abitava forse una famiglia, con dei bambini, con degli animali domestici. Tutti travolti. Ecco, il racconto delle piccole storie dà un’idea molto chiara della guerra.

Nonostante tutto, c’è chi continua a negare questi fatti. Per tanti, non è sufficiente nemmeno la testimonianza di chi è sul posto. È successo per esempio, con i crimini russi a Bucha. Come ti spieghi questa crisi di fiducia?
Sono posizioni inspiegabili, anche perché noi inviati cerchiamo di documentare il più possibile, con fonti di prima mano. Spesso il negazionismo è alimentato ad arte sui social da account di dubbia origine per cui tu ti chiedi se effettivamente ci sia dietro una volontà politica o singole persone. Detto questo, siamo ormai entrati a pieno titolo in quella che i l Times definì l’epoca della post verità per cui anche di fronte a una verità che è certificata dai fatti, si continua a non dare credito. A me è successo per esempio tutte le volte che ho documentato l’uso di bombe a grappolo da parte russa, vietate dalle convenzioni ONU. Ho visto morire persone di fronte a me per effetto di questi ordigni. Eppure, non è bastato.
A un certo punto o rispondi punto su punto, oppure lasci correre e ti affidi a chi invece ha ancora fiducia nel giornalismo certificato, professionale, documentato.

Come si risponde invece al rischio di assuefazione? C’è una responsabilità di chi informa ma anche di chi dovrebbe informarsi. Cosa si può fare per andare oltre l’indifferenza?
Per rispondere serve una premessa sul sistema dei media, soprattutto in Italia. La tendenza è quella di dimenticare molto velocemente le ultime notizie e i grandi drammi. Si passa subito a quello che succede dopo. L’era digitale ha velocizzato i processi e dopo tre giorni un fatto anche grave ci sembra già vecchio. Il risultato è che diventa difficile approfondire o arrivare addirittura alla fine del racconto delle storie. Una volta quando c’era un’alluvione in cui morivano delle persone tendenzialmente si seguiva quel fatto fino al funerale delle vittime. Oggi non è più così.
Per questo noi inviati molto spesso cerchiamo di forzare, di convincere i nostri superiori che è necessario continuare a occuparsi di certi temi.

Quando ti è successo l’ultima volta?
Un caso esemplare è l’Afghanistan, realtà che abbiamo dimenticato. Io ci sono tornato sei mesi dopo l’arrivo dei talebani e non è stato semplice convincere i miei capi. Non gliene faccio una colpa, purtroppo è il sistema che ha queste regole. Ormai andiamo dietro soltanto alle notizie del giorno e questo è pericoloso perché non consentiamo alle persone di farsi un’idea ragionata e di riflettere. Per andare oltre l’indifferenza, invece, bisogna proprio fare questo, rompere lo schema. È giusto dare il giusto peso alle cose, occuparci di quanto avviene, ma anche dare spazio a tutte le altre storie che possono emergere.
Ho capito che se il racconto segue le corde giuste, la gente ti viene dietro, non rimane indifferente. In sintesi, bisogna avere una gestione più razionale delle notizie.

Raccontare il dolore, ma anche la speranza. Dove l’hai vista? Come cerchi di comunicarla?
Io ho trovato una soluzione. Nei miei reportage cerco sempre di inserire un elemento un po’ leggero, un fatto divertente, un sorriso che possa dare un tocco delicato all’animo del telespettatore. Perché anche in situazioni drammatiche come in un conflitto, c’è sempre un momento per una risata, per la speranza.
Mi viene in mente un episodio avvenuto a Bakhmut, cittadina ucraina sotto assedio da mesi, massacrata e distrutta. Ricordo quattro persone che cucinavano nel cortile di casa sotto le bombe. Io con l’elmetto in testa che domandavo: Ma come fate a restare qui? Perché non scappate, ma come vivete? Una signora neanche mi risponde e guardandomi comincia a cantare una canzone di Celentano. Rimango allibito e lei continua con tutto il suo repertorio, come a dire: sei italiano, e allora ascolta… Questo siparietto mi ha dato speranza, mi ha mostrato la capacità delle persone di essere resilienti, di sopportare anche il dramma più grande e trovare il tempo per farsi una risata. Anche questa è empatia, un’occasione per umanizzare, per non raccontare una tragedia in modo asettico. Prima le persone…

L'anno dell'alpaca

di Giammarco Sicuro

Gemma Edizioni, 2021

Il libro è il racconto del lungo viaggio di chi si ritrova, suo malgrado, dall’altra parte del pianeta quando l’Organizzazione mondiale della Sanità annuncia l’inizio della pandemia.

 Per leggere gratuitamente le prime 20 pagine del libro


A cura della Redazione
NP marzo 2023

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