L’ARSENALE DELLA STANZA ACCANTO

Pubblicato il 31-08-2009

di Marisa Grandis


Diario di una visita all’Arsenale della Speranza del Sermig, a San Paolo in Brasile.                                                                                                        

di Marisa Grandis 

 

Quando conobbi Mariella della Fraternità del Sermig, nel 1996, lei era appena ritornata da San Paolo in Brasile e io ero alle prime armi con il servizio di cucina presso l’Arsenale della Pace di Torino. Tutti le facevano festa e io non capivo bene, ma stavo assistendo ad un evento storico: l’apertura dell’Arsenale della Speranza.
Sentir parlare di San Paolo mi ha accompagnata in tutti questi anni ed è stato normale per me, fino al giorno in cui ho saputo che sarei andata a Santiago del Cile e ho pensato: ma allora vado anche a San Paolo! E ci sono andata con Roberto, mio marito, con la voglia di dare una mano e la curiosità di conoscere finalmente da vicino questo Arsenale al di là del mare.
arssp.jpg All’aeroporto, Lorenzo e Marco (della Fraternità del Sermig a San Paolo) ci vennero incontro festosi e già questo mi sorprese, perché io avevo il timore di essere di intralcio a questi ragazzi, che avevano certo tanto lavoro e invece erano costretti a venirci a prendere. Niente di tutto questo. Con entusiasmo incominciarono a raccontarci la città e ad introdurci nell’ambiente “brasileiro”, dove ogni cosa è grande e ti fa sentire piccolo piccolo: questo è il fiume, questa è la via tale, giriamo qui... ecco là la nostra bandiera!
Effettivamente vedemmo la bandiera del Sermig sopra un muro, ma non era come mi aspettavo: sembrava defilata, poco importante...

Quando entrammo nel cortile
, scendendo dall’auto, subito sono stata avvolta da quell’atmosfera dolce che non mi avrebbe più abbandonato, come un profumo, una musica silenziosa, un luogo dentro al mondo e diverso da ogni altro luogo del mondo.

Non so se agli altri succede la stessa cosa, ma quando io penso all’Arsenale di San Paolo, mi ritrovo ancora nella stessa dolcezza, come se non me ne fossi mai andata.
Per farmi perdonare della nostra invasione, ho subito chiesto che mi dessero qualche lavoro da fare, ma loro hanno risposto: vai a riposare, ti chiamiamo più tardi.

Quando ci hanno chiamato, siamo andati a vedere gli usuarios che entravano e li abbiamo salutati, abbiamo parlato con qualcuno di loro, come se entrassero in un club, con dignità e anche con familiarità. La difficoltà della lingua non è insuperabile: molti conoscono un po’ di italiano e ci aiutano a capire.
Marco ci ha accompagnati in ogni luogo come uno sposo avrebbe fatto con la sua nuova casa. Ogni cosa era presente al suo cuore e ce la raccontava come se dovesse diventare altrettanto importante anche per noi. E non sbagliava.

La biblioteca, il bazar, il refettorio, il dormitorio, la scuola d’alfabetizzazione, di arte, di musica, il panificio, la cappella, tutto ci entrava negli occhi e scendeva diritto nel cuore e suscitava subito la speranza che qui la vita potesse crescere, espandersi, come in un vivaio di piante rare in estinzione.
Quando il temporale ci colse, ci rifugiammo in una porta e guardavamo l’acqua inondare il cortile. Marco disse: vorremmo fare una cisterna, quando vedi tanta acqua così andare via, ti prudono le mani...
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Sì anche il mio cuore abbracciava quell’acqua e la voleva trattenere, la voleva incanalare, per darle più importanza, per farle fare del bene. Se mi avessero dato una pala, avrei incominciato a scavare!

Quello che ci stupiva era l’ordine, la pulizia, la tranquillità, dove ognuno sembra muoversi al ritmo del suo cuore, dove si va e si viene attraverso i grandi cortili, ciascuno con un pensiero che lo porta, ciascuno come in una danza su un grande palcoscenico.
Anche quando scese la notte, dalle gelosie della nostra stanza, spiando verso il cortile vedevo uomini camminare come se cercassero ancora qualcosa, silenziosi come anime del purgatorio.
Nel silenzio pregavo per loro. Fai grazia, Signore, a ciascuno una grazia speciale, personale, nuova, tua! E a noi dai l’amore per essere tue mani, tuoi piedi, tua parola. Fai qualcosa, Signore, fallo subito, fallo tu, che sai. Solo tu sei la nostra speranza.

arssp2.jpg Nella notte calda splendevano gli alberi di Natale: qui non adornano i rami, ma i tronchi. Li avvolgono con fili di lampadine accese. E sono belli. Ma a noi europei sembra di essere su un lungomare a ferragosto... e questo mi fa riflettere sui nostri condizionamenti, come sia facile scambiare per amore un semplice riposo del cuore nelle sue abitudini....

Al mattino ci hanno chiamati per pregare con il gruppo della “Foresta che cresce” e per salutarli. Tutti pronti nelle magliette bianche e verdi, armati di scope e pale, pronti a fare qualcosa di buono nella città. Subito ci siamo guardati da amici. Questi volontari della Foresta sono migliori di me, loro sono come la vedova del vangelo: hanno poco e lo offrono. Che cosa possiedono infatti se non quel po’ di tempo che hanno davanti? E quello danno e lo danno con allegria. Ma non posso dimenticare che dietro a queste persone radunate c’è il lavoro dei ragazzi della nostra Fraternità, che li hanno chiamati con amore di madre e li conducono, li educano piano piano verso una consapevolezza di sé come persona unica e importante, che può fare cose buone per sé e per gli altri.

Uscendo per la via, abbiamo incontrato una città che, a parte, il centro, è come una enorme periferia, senza bellezze, senza negozi, strade dove passare alla svelta, solo quando ne hai bisogno, possibilmente in auto per non fare brutti incontri. Abbiamo voluto andare anche a piedi e abbiamo incontrato la povertà delle casette affacciate sulla via, colorate, scrostate, nessuno intorno. Eppure la gente non è poi così triste, forse ha una malinconia, come se aspettasse il ritorno di una bellezza perduta chissà quando, come se questa bellezza potesse essere prima o poi dietro un angolo.

All’Arsenale della Speranza il nome di dom Luciamo (Mendes de Almeida) è ripetuto tante volte nel giorno, la sua presenza non è mai cessata, anzi, è come se fosse diventato l’angelo del luogo. Guardavamo le sue foto e lo sentivamo vivo, presente, come se avessimo passato mille sere a parlare fra noi. Poi mi dicevo: è morto e io non gli ho mai parlato e non potrò più farlo. Questo non mi sembrava vero. E non lo sento vero nemmeno adesso e non so perché. Si prepara la festa della dedicazione dell’Arsenale al suo nome. Mi aspetto che sia una pioggia di grazie su tutte queste persone ospiti che hanno bisogno di trovare uno spiraglio di vita nella loro esistenza. Tante volte penso di essere nei loro panni e prego Dio come lo pregherei per me: Signore, stendi il tuo braccio e facci vivere. arsspdl.jpg

Liberaci dal male e scaccia ogni inganno, perdonaci e aprici il cuore all’amore, dacci il necessario per ogni giorno e facci amare la tua volontà, porta i nostri cuori ad amarti e adorarti.... questa preghiera assomiglia ad un Padre Nostro detto al contrario, nato dalla terra. Allora, Signore, capovolgilo tu che sai, ma ricordati che abbiamo solo te. Se non ci ascolti tu, da chi andremo?

Ernesto Olivero dice che non si parte e non si arriva, quando si è in comunione. E così lui gira il mondo, ma è sempre come se fosse nell’altra stanza. Ecco, adesso capisco questa cosa: anch’io mi sento come se fossi nell’altra stanza, come se con due passi potessi rendermi presente laggiù, entrare nella cappella e pregare in portoghese e salutare all’uscita: “Bon dia, boa tarde”, e fare una carezza a quel Tobia là. Sì, perchè gli Arsenali sono anche fatti di bandiere, di muri della bontà disarmante... e di cagnoni-peluche che ti corrono incontro mentre tu pensi: aiuto, adesso come si fa a fermarlo?

Ma c’è un problema che non abbiamo ancora risolto ed è: come si fa a cucinare senza che tutto abbia gusto di... Brasile?
C’è un gusto di selvatico che serpeggia in ogni cosa, e che vince ogni tentativo di coprirlo.

arssp3.jpg Forse è la terra, che non ha ancora perso la sua veemenza, anche se abbiamo cercato di “metterla sotto” con sessanta chilometri di città. Forse siamo noi, che siamo stranieri in questo angolo del mondo e la natura ce lo dice, anche se abbiamo la pretesa di volerci sentire a nostro agio ovunque, perchè siamo abituati così... Grazie al cielo ci sono Lea e Suelì che arrivano con arrosti e torte buonissimi a consolare questi stranieri.
E poi c’è Paladino, che ti porta a visitare la città. Sì, Sao Paulo è grande, enorme, fuori dalla nostra portata di comprensione, ci travolge.
Siamo abituati che, se vogliamo vedere una città, basta salire un po’ in alto per abbracciarla con lo sguardo. Là non è così: dal grattacielo più alto si vede un sipario di altri grattacieli, ma l’orizzonte rimane un mistero. Da qualunque altura tu guardi, la città si nasconde alla tua comprensione visiva. A San Paolo ti senti piccolo e ti rimane questa insoddisfazione di non aver potuto impadronirtene.
Forse ritornandoci...?
San Paolo, 3-8/01/2008
Marisa Grandis

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Brasile: 10 anni di Arsenale della Speranza
Brasile: Foresta che cresce
Dom Luciano Mendes de Almeida

 

 

 

 

 

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