La guerra dei Faccioni

Pubblicato il 31-08-2009

di Aldo Maria Valli


Sui manifesti, al di sopra del Faccione e vicino al nome del candidato, appariva spesso a caratteri cubitali un’ingiunzione: “Scrivi!”, il che voleva dire: al momento del voto, sulla scheda elettorale, scrivi il mio nome…

... di Aldo Maria Valli

 


Nel Paese dell’Allegria – noto in tutto l’universo perché la gente, bene o male, se la cavava sempre e le cose, in un modo o nell’altro, si aggiustavano – c’era un solo periodo in cui il clima si faceva cupo. Era quando si celebrava il rito del Grande Voto per eleggere i rappresentanti del popolo. Allora la lotta fra i partiti diventava dura, anzi spietata, e soprattutto scendevano in campo loro: i Faccioni.

Appartenevano ai candidati, erano moltissimi e apparivano ovunque, in ogni angolo della città. Sui muri delle case e delle scuole, accanto ai negozi, sulle cabine del telefono, sui piloni che reggevano i ponti. Non c’era un solo centimetro quadrato di superficie che non fosse occupata e coperta da grandi manifesti con i volti di questi esseri invadenti. Teoricamente i Faccioni avrebbero dovuto utilizzare soltanto alcuni spazi ben delimitati. Tabelloni messi a disposizione proprio a quello scopo venivano infatti allestiti lungo le maggiori strade, nelle settimane che precedevano il Grande Voto, in modo che i Faccioni potessero mostrarsi a tutti. In realtà loro non rispettavano alcuna regola e si presentavano nei luoghi più disparati. La città si trasformava presto in una enorme, interminabile, inquietante galleria di volti, ma diventava anche il teatro di una battaglia senza esclusione di colpi.

I sostenitori dei vari Faccioni, infatti, armati di colla e spazzoloni,
si aggiravano lungo le strade per collocare il maggior quantitativo possibile di manifesti, con risultati raccapriccianti. A volte, su uno stesso tabellone o sul medesimo spicchio di muro, venivano incollati a ripetizione Faccioni di diversi schieramenti, con esiti davvero infausti: prima di tutto, nessun Faccione riusciva a rendersi visibile per un tempo accettabile, perché nel giro di qualche ora era subito coperto da un Faccione avversario, e poi lo spessore totale dei manifesti, incollati uno sopra l’altro, raggiungeva proporzioni tali per cui l’insieme dei manifesti crollava miseramente a terra. A tutto questo si aggiungevano poi le scorribande dei guastatori: abili incursori che, al servizio dell’uno o dell’altro Faccione, strappavano i manifesti avversari facendoli a brandelli. Non c’è che dire: la Guerra dei Faccioni era davvero tremenda.

I Faccioni appartenevano ovviamente agli schieramenti più diversi, ma c’era un aspetto che li accomunava: la ferrea, indomita, incondizionata e assoluta volontà di farsi vedere. Siccome i loro consulenti di immagine, veri maghi nell’arte di procacciarsi consensi, dicevano che la gente aveva bisogno di sentirsi rassicurata, la maggior parte dei Faccioni si sforzava di comunicare sicurezza mediante sguardi sapientemente costruiti: occhi che ti dicevano di stare tranquillo, perché a tutto avrebbero pensato loro; bocche atteggiate a sorrisi che invitavano all’ottimismo senza mai essere eccessivi o sguaiati; cravatte che ti facevano sentire pieno di rispetto e di riconoscenza per uomini tanto forti e sicuri di sé; giacche eleganti ma non troppo, in modo da non suggerire l’idea di ricchezze magari illecitamente accumulate; golfini dai colori pastello, indossati da candidati che volevano in quel modo trasmettere un’idea di gioventù; e poi occhiali indossati con disinvoltura, pettinature accurate, rasature perfette. Nessuno tra i Faccioni mostrava il minimo segno di stanchezza o trascuratezza. Non ce n’era uno che avesse le borse sotto gli occhi, o il colletto della camicia leggermente fuori posto, o la cui epidermide fosse solcata da una qualche ruga. Niente. I Faccioni erano perfetti.

Tra loro, non si sa bene perché, prevalevano nettamente gli uomini. Le donne erano poche, una piccola minoranza, ma forse proprio per questo facevano di tutto per mostrarsi altrettanto agguerrite. Abilmente truccate, le rappresentanti femminili comunicavano, al pari dei maschi, un irresistibile senso di sicurezza e di padronanza di sé, ma in più mettevano in campo un certo qual fascino che costituiva indubbiamente un’arma potente. Il sorriso delle donne, sempre seducente, appariva in effetti anche un po’ ammiccante, quasi che dietro quelle Faccione si potessero intuire promesse alquanto allettanti. Un sottile gioco di dettagli contribuiva a costruire immagini che nel subconscio degli elettori avrebbe dovuto sfociare in un solo risultato: il voto.

A questo scopo molti Faccioni utilizzavano però uno strumento supplementare. Non del tutto convinti, evidentemente, delle capacità di persuasione garantite dalla propria immagine, si servivano anche delle parole. Così sui manifesti, al di sopra del Faccione e vicino al nome del candidato, appariva spesso a caratteri cubitali un’ingiunzione: “Scrivi!”, il che voleva dire: al momento del voto, sulla scheda elettorale, scrivi il mio nome. Era un invito tanto perentorio quanto pleonastico, perché tutti sapevano che lo scopo del manifesto era proprio quello di imprimere nella memoria dell’elettore il volto e il nome del candidato in modo che, nel giorno delle elezioni, quel ricordo si trasformasse in un voto. Ma quell’imperativo – “Scrivi!” – nasceva da un’esigenza profonda: far capire all’elettore chi veramente comandava.

Altre parole apparivano a volte a corredo del Faccione. In alcuni casi erano termini a cui la gente, in verità, prestava ormai scarsa attenzione, come “democrazia”, “giustizia”, “libertà”, espressioni a giudizio unanime alquanto consunte, tanto che gli elettori si stupivano del fatto che certi Faccioni, così smaliziati nel proporre la propria immagine, potessero ancora riporre una qualche fiducia in un tale armamentario ideologico.

Nella Guerra dei Faccioni, stancante per tutti, c’era anche chi aveva l’ingrato compito di controllare il rispetto delle regole, ma ciò che abbiamo detto fin qui fa capire che in realtà nessuno controllava un bel nulla. Nell’epica Guerra dei Faccioni l’unica regola ammessa era la mancanza di regole. Si arrivò così al punto che, alla vigilia del Grande Voto, la città assunse l’aspetto di una gigantesca discarica. Lembi di manifesti strappati erano ovunque. Malamente appiccicati alle superfici verticali oppure abbandonati sui marciapiedi, componevano un quadro grottesco. Uscivi per andare a comperare il pane e ti trovavi a camminare sopra pezzi di bocche un tempo sorridenti e ora quasi oscene; entravi dall’edicolante ed ecco che dal muro accanto ti sentivi osservato da ciò che restava di uno sguardo che era stato paterno e ora comunicava solo angoscia; guidavi lungo un viale ed ecco che migliaia e migliaia di manifesti lacerati e oltraggiati, come coriandoli impazziti, ti si paravano davanti offuscandoti la vista; portavi fuori il cane e poteva succedere che il bisognino del tuo amico quadrupede venisse collocato proprio sulla fronte di un candidato. Una situazione incresciosa.

Nessuno seppe mai con esattezza quanti soldi vennero spesi dai diversi Faccioni per proporre se stessi inseguendo il mitico traguardo della visibilità assoluta. Di certo si trattò di una somma notevolissima, e altrettanto certamente fu pesante il tributo pagato da boschi e foreste. Per produrre tutta la carta necessaria alla confezione dei manifesti il Paese dell’Allegria sacrificò infatti buona parte delle proprie aree verdi, ma ormai che importava? L’attenzione di tutti era concentrata sul risultato del Grande Voto. Risultato che voi conoscete benissimo e sul quale è inutile che mi dilunghi. Con una sola postilla. Per ripulire la città ci vollero mesi e mesi, ma a causa delle colle impiegate dagli attacchini, sempre più resistenti per vincere la concorrenza, ancora adesso frammenti di Faccioni appaiono qua e là, rammentandoci la dura battaglia ingaggiata per il Grande Voto. Meno male che nel Paese dell’Allegria non solo la gente, in un modo o nell’altro, se la cava sempre e le cose bene o male si aggiustano, ma nessuno ricorda ciò che è stato.

Aldo Maria Valli
da Nuovo Progetto aprile 2005

 

 

 

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