La grande fame

Pubblicato il 10-07-2023

di Redazione Sermig

Guerra e fame, uno spaventoso binomio che l’occidente ha drammaticamente riscoperto dopo l’invasione russa dello scorso anno.
Ma anche fame e guerra, come limiti allo sviluppo, elementi di instabilità che tanta umanità patisce da tanto tempo.
Possiamo uscirne? Ne riflettiamo insieme con Maurizio Martina, vicedirettore della FAO (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), Rosita Di Peri, ricercatrice universitaria ed esperta di Libano e Medio Oriente, Paolo Lambruschi, inviato di Avvenire ed esperto di Africa.

La fotografia è implacabile. Numeri che dicono più di molte parole: 828 milioni di persone che soffrono la fame, 46 in più rispetto al 2020, 150 rispetto al 2019. Il risultato di questi anni di montagne russe: prima il covid, adesso gli squilibri economici legati alla guerra in Ucraina e ai cambiamenti climatici.
E il futuro è tutto in salita. Lo dice con chiarezza Maurizio Martina, già ministro dell’Agricoltura, oggi vicesegretario generale della Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite che ha il compito di contrastare la fame nel mondo.
«Se nel 2015 avevamo l’ambizione di arrivare a sconfiggere la fame nel giro di 15 anni – spiega – oggi abbiamo gli stessi numeri di allora».
 

Prima il covid, adesso la guerra: la crisi alimentare e le sue sfide. Parla Maurizio Martina, vicesegretario generale della Fao

In che misura questa guerra sta condizionando la situazione?
La particolarità è legata al fatto che Russia e Ucraina sono due grandi Paesi produttori ed esportatori di beni alimentari fondamentali. Prima del conflitto, almeno cinquanta Paesi in via di sviluppo facevano affidamento sui cereali prodotti in quest’area. L’effetto è stato pesantissimo sia diretto che indiretto perché la guerra ha creato un clima di enorme incertezza anche sui mercati dei beni agricoli con un aumento drammatico dei prezzi.

La guerra in Ucraina ci ha ricordato ancora una volta che siamo tutti interconnessi. Un limite o un’opportunità?
È vero, l’interconnessione è profonda. La globalizzazione non riguarda solo la tecnologia, le merci o la finanza, ma anche i sistemi agricoli. Credo che le incertezze di questo tempo abbiano fatto emergere il grande bisogno di nuove regole, specie sul fronte agricolo e alimentare perché le dinamiche sono ancora più divaricanti. Pensiamo all’emergenza energetica generata dalla coda del covid con aumenti che hanno impattato subito sui prezzi dei beni agricoli di prima necessità. Il grano è stato l’epicentro di questo movimento con un paradosso, che i prezzi attesi sui mercati determinano i prezzi reali e non il contrario.

In che modo?
Nei mercati globali senza regole pesa di più l’attesa del prezzo che non il prezzo effettivo e questo genera una dinamica impazzita. Pensiamo a strumenti finanziari come i futures dentro i mercati agricoli alimentari. Erano nati per stabilizzare i prezzi, per dare una mano ai produttori, oggi in realtà sono uno strumento della finanza sull’economia reale. Per questo dico che servono nuove regole senza rinunciare all’interconnessione buona. Non dimentichiamolo, negli ultimi decenni milioni di persone sono uscite dalla fame grazie alla globalizzazione. Non è tutto da buttare, ma dobbiamo vedere con chiarezza le storture.

Secondo il Sipri, nel 2022 le spese militari nel mondo hanno raggiunto i 2.100 miliardi di dollari. È una cifra incredibile. Basterebbe molto meno per sconfiggere la fame e promuovere lo sviluppo. Dobbiamo rassegnarci a questo stato di cose?
No, ma dobbiamo capire che il mondo è entrato in una fase storica nuova e si è polarizzato ancora di più. Già prima della guerra in Ucraina il multilateralismo non stava bene, oggi sta ancora peggio. L’impalcatura internazionale generata dalle macerie della seconda guerra mondiale oggi purtroppo è in discussione. Questo vuol dire rinunciare a una prospettiva di pace? Assolutamente no, ma dobbiamo avere presente che la sfida è più difficile e che esistono punti di vista molto diversi.

In che senso?
Me ne sto accorgendo anche nell’esperienza attuale. Per dire, scoppia una guerra e ti aspetteresti una reazione da tutti che però non c’è. Oppure discuti di sviluppo e di sostenibilità e ti scontri con dei muri. Ti verrebbe da dire che altri popoli non abbiano le coordinate valoriali nostre. Ma stiamo attenti a ragionare così! Perché poi magari un Paese in via di sviluppo ti dice: scusa, fammi capire, io dovrei rinunciare al mio sviluppo perché tu devi dichiarare il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile? Tu con la pancia piena e io con la pancia vuota? Tu hai frodato per decenni le mie risorse e mi dici che dovrei rinunciare a qualcosa quando tu non hai mai rinunciato a nulla? Questo è il grande tema che abbiamo di fronte. La realtà è che i rapporti di forza esistono ancora. Ma è lì che dobbiamo collocare la nostra sfida.

Come si risponde?
Serve una risposta nuova di fronte a questo smottamento. Quanti immaginano e sognano un mondo diverso, devono tirare fuori delle idee nuove, offrire delle prospettive differenti, ragionare sul fatto che la democrazia per noi è un dato acquisito, ma per tanti altri no. Dobbiamo coinvolgere gli altri non dentro uno schema che non c’è più, antistorico per cui noi spieghiamo agli altri quello che devono fare, ma dentro una logica cooperativa diversa. Non l’abbiamo ancora trovata, ma da qui dobbiamo ripartire.

I mercati agricoli, non solo in Italia, spesso sono segnati anche da speculazioni. Non è sempre facile dare il giusto valore ai prodotti e al lavoro. Esistono strumenti per invertire la tendenza?
In Italia partiamo da una realtà che ha mille sfaccettature. È chiaro che i produttori sono l’anello più debole. E qui si torna al tema delle regole, di una economia giusta. La domanda è semplice: come fare in modo che i costi di produzione siano almeno coperti dai ricavi? Se la logica però è quella del prezzo più basso, è chiaro che si rischia un conflitto tra il cittadino consumatore e il cittadino lavoratore. Dobbiamo costruire un nuovo equilibrio, ancora di più a livello globale.

Cosa possono fare i singoli? Quali sono le buone pratiche per lottare contro la fame?
Ognuno può fare la propria parte. Lo sappiamo, siamo fortunati perché viviamo in una parte del mondo che si permette il lusso di sprecare un terzo di quello che produce e che spesso e volentieri butta dal frigorifero al cestino senza neanche pensarci troppo. Per prima cosa, è importante aumentare la consapevolezza: sprecare meno, consumare meglio. Poi, credo moltissimo ai progetti che dal basso cambiano la vita delle persone. Nel mondo ce ne sono a migliaia, nonostante tanti problemi, in primis la corruzione. Dobbiamo sostenere queste realtà positive, ampliarne la portata, coinvolgere nuovi attori: la cooperazione, le organizzazioni, le associazioni. Le cose possono davvero cambiare.

In una situazione così complessa, qual è a suo parere il pericolo più grande? E la speranza?
Il pericolo più grande è l’indifferenza. A questo si risponde appassionandosi e studiando perché spesso non basta la superficialità di alcune analisi per capire le cose. Sulla speranza, penso al progetto dell’Unione Europea. Per quanto la bistrattiamo è il più grande progetto di pace mai realizzato su questo pianeta. Il tema non è dormire sugli allori, ma rinnovare quello spirito nato dopo l’esperienza della seconda guerra mondiale e la forza della democrazia.
Dobbiamo darle un nuovo contenuto e mai darla per scontata. Se faremo così, capiremo che possiamo stare veramente bene se anche gli altri stanno bene. Se gli altri non stanno bene, hai voglia di parlare di pace. Credo che sia questo il vero lavoro che dobbiamo fare.


A cura della redazione
NP aprile 2023

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