IRAQ: un paese in trappola

Pubblicato il 11-09-2011

di Jean Benjamin Sleiman

Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo cattolico di Baghdad. Lo abbiamo incontrato a Beirut. Descrive uno scenario i cui attori principali sono imprigionati nella violenza. E i cristiani? Impauriti e senza un disegno politico unitario.

a cura di Simone Bernardi
Nel suo ultimo libro lei parla di trappola irachena (vedi Book sotto). Cosa intende? Qual è la sua analisi dell’attuale situazione?
L’immagine della trappola credo esprima bene la grave difficoltà in cui si trova l’Iraq di oggi, con i suoi tanti protagonisti. I principali sono gli americani, con i loro alleati: ho l’impressione - ma lo dicono molto spesso anche i grandi media - che siano caduti in una trappola. Molti dicono che i loro alleati iracheni li hanno ingannati, che hanno scoperto una società molto differente da quella che potevano immaginare. Inoltre, avendoli liberati da una dittatura, forse pensavano che gli iracheni sarebbero stati pieni di gratitudine; anche su questo fronte sono rimasti delusi. Dimenticano tuttavia che anche loro hanno deluso molto, soprattutto in rapporto alle aspettative create: la gente pensava che con l’arrivo degli americani, l’Iraq sarebbe diventato come l’America, il cinquantunesimo Stato… quindi la delusione è reciproca. Gli USA hanno annunciato una missione, dei programmi e tutto questo è rimasto un’intenzione, parole, perché non hanno realizzato quanto promesso. Ormai alla violenza non c’è limite: persino i morti vengono imbottiti di tritolo e fatti esplodere quando altri si avvicinano per recuperarli. Tanti di coloro che di giorno indossano la divisa da poliziotto, di notte si trasformano in miliziani. L’odio, e il desiderio di placarlo, non ha più leggi né remore. Se gli americani decideranno di restare, dovranno far fronte a molte sfide assai costose. Ecco perché mi pare siano intrappolati in una situazione complicata.
E i protagonisti iracheni?
Quando parlo di trappola, penso soprattutto a loro. Gli sciiti, che sono i grandi vincitori, o meglio, coloro che hanno profittato maggiormente della vittoria sul vecchio regime, oggi sono divisi. Le ultime battaglie in Iraq sono avvenute proprio tra fazioni sciite: tra le milizie di Muqtada al-Sadr e quelle di Al Hakim, che sono i due grandi capi. C’è anche un altro aspetto: il loro progetto politico non è interamente realizzato, ad un certo punto si sono dovuti fermare. Temo pensino che la violenza possa essere il modo per realizzare ciò che non hanno ancora compiuto, ma anche questa è una trappola, perché la violenza non risolverà il problema.

Se invece consideriamo la situazione dei sunniti, vediamo che sono ricorsi molto presto alla violenza contro l’occupante, ma anche contro gli sciiti, probabilmente per ritrovare il potere perduto e un posto forse più efficace nella nuova configurazione politica dell’Iraq. Ma anche la loro violenza non ha realizzato ciò che cercavano: molti di loro hanno cambiato linea; molti invece vanno avanti. Sciaguratamente, questa violenza è un miraggio e non realizzerà gli obiettivi. Anche i sunniti, dunque, sono intrappolati in una situazione che non li porta a nulla.
Se penso ai curdi, essi hanno ottenuto moltissimo: maggiore autonomia, risorse, posti chiave nel nuovo regime iracheno, come la Presidenza della Repubblica, il Ministero degli Esteri, lo Stato maggiore dell’esercito, insomma, tanti posti decisionali nel nuovo Stato. Ma anche loro non possono più andare oltre nel proprio progetto di dichiarare uno Stato indipendente, perché ciò significherebbe entrare in conflitto con le altre componenti irachene. L’alternativa è accettare un federalismo che è solo di vetrina. Nel sottosuolo di Kirkuk è custodita buona parte delle riserve petrolifere irachene e il problema del controllo di queste risorse è scottante: perciò la guerra intorno alla città di Kirkuk è molto dura ed è solo all’inizio! In questo scenario, gli Stati vicini vedono con sospetto il processo politico curdo-iracheno. Per ora, malgrado le loro intenzioni, anche i curdi sono costretti a fermarsi da qualche parte. Tutti i grandi protagonisti sono a mio parere intrappolati e la violenza aumenta, senza risolvere nulla.

In questo scenario, qual è la situazione dei cristiani?
Le minoranze, come i cristiani, sono intrappolate dalla paura, una paura molto antica, e stanno fuggendo verso l’estero o verso il Nord. Politicamente non hanno realizzato niente, nemmeno un deputato eletto, mentre avrebbero potuto facilmente averne quattro o cinque (ne hanno qualcuno, ma su liste sciite o curde).

Sono divisi e non hanno un vero progetto politico, diciamo pure che non hanno un senso della politica: per i capi, tradizionalmente, la politica era fare una visita al capo locale in occasione delle feste, elogiarlo, e poi magari chiedergli il permesso di costruire una chiesa. Questa impostazione, dopo la guerra, si è tradotta nell’incapacità di pianificare un vero progetto politico, non si è mai visto altro se non uno sparare dei nomi: Partito democratico caldeo, Partito repubblicano assiro ecc. Nel contesto iracheno, quando tu scrivi assiro o caldeo, vuol dire che ti sei ripiegato su una posizione confessionale, quindi chiusa; strategicamente, essendo le Chiese cristiane delle minoranze, ciò significa un suicidio dal punto di vista politico. Sarebbe importante fare qualcosa per cercare di andare oltre le barriere confessionali e comunitarie… ma questo nella testa non c’è, non è solo una questione di numeri o di mezzi. L’incapacità deriva dal fatto che non c’è mai stata la libertà di agire politicamente, vi hanno sempre rinunciato, rifiutandolo come una cosa pericolosa.

Dans le piège irakien
di Jean Benjamin Sleiman
Presses de la Renaissance

Un libro da leggere - per ora in francese, speriamo presto anche in italiano - quello dell’arcivescovo cattolico di Baghdad, il carmelitano Jean Benjamin Sleiman. Un’analisi disincantata, ma serena, senza veli, senza sconti, mai fuori dalle righe, sempre rispettosa della grande sofferenza che oggi in Iraq colpisce tutti senza distinzione di appartenenza etnica o religiosa. Un libro in cui l’autore parla soprattutto della passione dei cristiani iracheni che rivivono oggi un venerdì santo che l’usura del tempo non ha mai intaccato.

Tra i vari leader, c’è qualcuno che cerca una strada non violenta?
Ci sono, non molti, ma ci sono. C’è ad esempio il grande leader sciita Al Sistani, che però, in questi ultimi tempi, mi sembra abbia perso molta della sua aurea morale. Tuttavia è uno che ha sempre combattuto la violenza, non ha mai voluto rispondere alla violenza con la violenza ed ha sempre cercato di affrontare gli americani su un piano più politico, direi più giuridico. Poi ci sono degli imam. Ce ne uno a Baghdad, per esempio, che è quasi isolato dopo aver detto ai fedeli: “Non confondete politica e religione, se i capi religiosi vogliono fare politica, lo facciano come cittadini, non come rappresentanti di un gruppo religioso”. Lui ha avuto il coraggio di dirlo, non solo a Sant’Egidio in Italia, ma anche in Iraq; per questo è isolato e anche combattuto in maniera indiretta. L’appartenere ad una grande famiglia sciita lo protegge, ma è davvero uno dei pochi, e comunque non ha sulla realtà la stessa presa di chi predica la violenza.
a cura di Simone Bernardi
da Nuovo Progetto dicembre 2006

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