Io e mister Park

Pubblicato il 06-10-2011

di Redazione Sermig


“Una banda di 007 é alla caccia di un pericoloso killer che si fa chiamare con un nome, MISTER, che se da una parte evoca scenari classici, quasi... nobiliari, dall’altra, PARK, fa vedere la sua vera natura: è UN LADRO, UN ASSATANATO LESTOFANTE CHE RUBA TUTTA LA DOPAMINA CHE PUÒ! Purtroppo questo tale sta quasi svaligiando il mio ex fornitissimo deposito di dopamina, e lo fa con una tecnica sopraffina, interviene, fa man bassa, lascia qualche traccia (il tremolio o la rigidità...) e poi se ne va, indisturbato perché il derubato, oltre al danno ha anche le beffe: rimane lì, bloccato e, anche se ha visto più volte il malandrino fuggire, non riesce a fare nulla, se non aspettare che, improvviso, arrivi di nuovo... E lui arriva, inesorabile e un po’ sadico, tanto sicuro di sè che aumenta le sue visite ed anche il bottino!”. È l’inizio del diario di don Giorgio Chatrian, valdostano trapiantato a Torino, 51 anni, amante della vita, dei giovani e della musica, che a 45 anni ha scoperto “un compagno di viaggio imprevisto”: il parkinson.

di Giorgio Chatrian

 

Chi sono questi 007? Sono i medici che mi stanno curando, tenendo conto che il parkinson è una malattia di cui non si conosce ancora la causa e quindi si possono combattere solo i sintomi (tremolio e rigidità, per lo più). Nel 2000 a causa di un lieve tremolio sono andato da un amico ortopedico; mi ha mandato da un neurofisiatra, il quale mi ha detto: “Lei non ha mai pensato di avere un parkinsonismo?”. Mi è venuto freddo alla schiena, e di lì è iniziato un lungo cammino di interiorizzazione in relazione a questa malattia.

In realtà, più che “perché è toccato proprio a me” mi aveva fatto più problema - in un primo tempo - “che cosa diranno gli altri”. Poi mi sono accorto che non è una malattia che invalida nella testa, nel cuore, nella vita. Se uno si lasciasse andare, si chiudesse a riccio, questo piuttosto lo invaliderebbe. Interiorizzando un poco per volta l’esperienza, mi è sembrato di poter mettere alcuni punti fermi nella mia vita, che mi hanno permesso una brusca accelerata nella mia maturità, come persona anzitutto, poi come salesiano e come sacerdote.

Come persona: se ti trovi a 45 anni di fronte a questo problema ti interroghi seriamente sul senso del limite. In una società come la nostra, con la logica del over the top, del superare i limiti a tutti i livelli, mi sono trovato a dirmi: “Il mio corpo sta andando in crisi; vuol dire che non è la cosa più importante. La cosa più importante è quello che uno è, non ciò che uno ha: a me manca addirittura la salute!”. Questo mi dà libertà, anche nei confronti della malattia: la malattia non è don Giorgio, don Giorgio è don Giorgio, punto e a capo.

Credo adesso di avere una libertà anche nel presentarmi in pubblico con il mio tremolio, la mia rigidità, la mia voce sempre più chioccia, con i miei limiti.
Mi accorgo che il senso del limite fa parte della mia vita e mi fa apprezzare molto di più le cose che prima consideravo banali, come una breve passeggiata con gli amici - prima facevo gare ciclistiche, anche su 1500 m. di dislivello. Prima cercavo anch’io dei limiti con cui confrontarmi, adesso sto recuperando questa quotidianità, veramente straordinaria: un “carpe diem” cristiano, oltre che umano, perché credo che il buon Dio mi ami proprio così come sono.

E qui entra in gioco il secondo fattore di maturità: nel mio essere cristiano. Non credo che Dio mi abbia mandato questa malattia. Nel vangelo di Giovanni, davanti alla morte di Lazzaro Gesù dice: “Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio”. Ora non prego più con preghiere, con formule, ma credo che il senso del limite mi abbia messo in comunicazione molto più diretta con Colui che supera ogni limite, che dà senso a tutta la vita, Dio. Questa credo sia la preghiera. Poi ci sono preghiere, come il rosario, molto più facili da dire, ad esempio, nei momenti di rigidità, poiché con il tremolio non è facile concentrarsi, leggere. Sto recuperando molto la lode a Maria, che anche lei ha sofferto ai piedi della croce. Dal punto di vista cristiano penso sia un grande dono questo che il Signore mi ha dato, perché mi ha fatto crescere.

Poi c’è un altro aspetto, come educatore, sacerdote. Come si fa oggi a comunicare la fede? È molto difficile. Non siamo più nel ’68, quando c’era muro contro muro ed era bello battagliare, chi sosteneva che “Dio è morto” e chi invece sosteneva che è vivo. Oggi la gente è assolutamente indifferente rispetto alla vita cristiana ed è difficilissimo comunicare la fede con linguaggi adeguati, c’è una crisi del linguaggio.

I giovani non capiscono più il linguaggio razionale, da liceo classico, con il quale ci siamo formati noi. Se parli loro così, non ti capiscono, se usi il loro linguaggio rischi di non comunicare nulla, perché è estremamente povero, circoscritto alle loro esperienze. Qualche possibilità c’è usando la musica, l’immagine, ma presuppone delle conoscenze che non tutti possono avere. A volte anche le testimonianze più limpide, di gente che vive la castità, la povertà, rischiano di lasciare indifferente la gente, che non dice “Guarda che bravi”, bensì “Sono stupidi, non profittano delle opportunità che vengono loro offerte”.

Un valore aggiunto alla testimonianza viene dato allora dal dolore, da chi vive la propria testimonianza soffrendo. Il dolore accettato con serenità, senza lamentele, mette la gente in condizione di porsi delle domande. Oggi infatti il problema non è dare delle risposte, è che la gente non si pone più domande. Noi preti e tanta parte del mondo cattolico abbiamo già le risposte preconfezionate, ma la gente non sa che farsene, perché non ha le domande. Invece, di fronte alla sofferenza uno può iniziare a porsi delle domande: perché quella persona è ottimista, va avanti, riesce a dare un senso alla sua vita, a essere solidale? Credo che, se si pone la domanda, la risposta è ovvia: perché è credente. Allora può nascere un percorso di ricerca del senso della vita insieme a Gesù Cristo.

Dal punto di vista pastorale, infine, l’incontro con le persone - anche se in modo meno spettacolare rispetto a quando potevo incontrare centinaia di giovani insieme - adesso mi sembra molto più essenziale: si va subito al cuore del problema, poiché si condivide subito la sofferenza, non solo fisica ma anche morale, e insieme si cerca una soluzione, attraverso la parola di Dio, il sacramento della riconciliazione, la solidarietà.

Vedi anche:
LETTERA AI MEDICI di Mario Melazzini

 

 

 

 

 

 

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