Il muro non cade
Pubblicato il 16-02-2021
Lo scorso 4 novembre, il democratico Joe Biden ha vinto le presidenziali Usa. Dal prossimo 20 gennaio, entrerà alla Casa Bianca. Tra le tante sfide che lo attendono, c’è quella cruciale della migrazione. Proprio sui bad hombre, da tenere lontani con un muro fisico che blindasse tutti i 3.100 chilometri della frontiera tra Stati Uniti e Messico, il predecessore e rivale ha costruito la linea dell’Amministrazione e la campagna. Per quattro anni, l’opinione pubblica internazionale ha assistito alle invettive incendiarie di Donald Trump nei confronti dei migranti, in particolare latinos.
Con Joe Biden ora si chiude quell’era. Non solo per le differenze di stile e carattere fra i due leader. Fin dall’inizio della corsa, il democratico si è impegnato esplicitamente a “mettere fine” all’“attacco implacabile” da parte di Trump “ai nostri valori e alla nostra storia come nazione di immigrati”, come si legge nel programma. Adiós al muro, dunque? La risposta è affermativa solo in parte. Perché il trumpismo non ha creato il muro, bensì la sua retorica. La barriera fisica esiste fin dal 1989 quando, durante l’Amministrazione di Bush padre, fu costruito il primo tratto, a cavallo della spiaggia tra Tijuana e San Diego in un momento di incremento del flusso. Quando The Donald è giunto alla Casa Bianca, la recinzione copriva già un terzo del confine, grazie al lavoro dei predecessori, da Clinton a Bush figlio a Obama. Quest’ultimo più che la barriera fisica, aveva creato un complesso sistema di controllo high tech. Alcune delle lastre che lo formano erano state riciclate dal materiale avanzato durante la guerra in Iraq. Certo, Trump aveva promesso di completare l’opera con altri 1.600 chilometri di ferro e cemento. In realtà, ne sono stati realizzati appena 597 e il 90 per cento delle volte per rimpiazzare vecchie barriere usurate dal tempo. Con Joe Biden la questione è definitivamente archiviata.
Nel suo piano migratorio, il neo eletto parla di “controllo frontaliero intelligente”. Come pure si impegna a eliminare alcune delle misure più controverse del repubblicano entro i primi cento giorni di governo. A partire dal muslim ban, che vieta l’entrata negli Stati Uniti a persone provenienti da tredici Paesi, in maggioranza islamici. O le quote massime giornaliere di domande d’asilo ricevibili. Mentre il sistema di protezione per gli oltre 650mila giovani irregolari, arrivati da bimbi negli States dove hanno studiato o prestato servizio militare – il cosiddetto Daca – verrà ripristinato. Al contempo, la nuova Amministrazione ha promesso di fare il possibile per ricongiungere alle famiglie gli oltre cinquecento baby-latinos, separati al confine nell’ambito della politica di “tolleranza zero” avviata dal predecessore dalla primavera 2018. In pratica, Biden abolirà la “retorica del muro”. Sarebbe, però, ingenuo pensare a una rivoluzione della politica migratoria Usa. Il cuore del programma del nuovo presidente non si discosta dall’impostazione classica, imperniata sul concetto di “sicurezza nazionale”. I nuovi provvedimenti dovranno, dunque, assicurare un contenimento degli arrivi per non irritare un Senato a probabile maggioranza repubblicana e l’elettorato conservatore moderato.
Il problema aveva già costretto l’Amministrazione Obama – di cui Biden è stato vice – a un ambiguo equilibrismo che ha finito per scontentare destra e sinistra.
Che cosa farà ora la nuova Casa Bianca? Tre i dossier particolarmente spinosi. Primo il programma Remain in Mexico che ha trasferito dall’altro lato della frontiera 67mila richiedenti asilo, in gran parte latinoamericani, in attesa della decisione della corte. È questo il vero muro – di tipo legale – di Trump. Per costruirlo, il repubblicano non ha esitato a minacciare, nella primavera 2019, il Paese vicino di aumentare i dazi sulle importazioni messicane. Di fronte alla mannaia, Andrés Manuel López Obrador, nazionalista e primo presidente di centro-sinistra del Messico, non ci ha pensato due volte a fare marcia indietro nella politica di “porte aperte”. Il duo Biden-Harris ha garantito l’eliminazione di Remain in México. Come pure degli accordi per l’invio di profughi in Paesi centroamericani ad alto tasso di violenza. Mantenere gli impegni non sarà, però, facile, per lo meno nell’immediato: riportare negli Usa di colpo gli aspiranti rifugiati manderebbe in tilt il sistema di accoglienza.
Per quanto riguarda il nodo deportazioni non ci sarà alcuno stop, anche se è probabile un ritorno alla linea-Obama ovvero a concentrare i rimpatri sugli irregolari che commettano reati. Il che non ha impedito al presidente-Nobel di ottenere il record di tre milioni di espulsioni e il titolo non proprio lusinghiero di Deporter in chief.
Obama usava le deportazioni come contropartita con i repubblicani per raggiungere l’attesa riforma migratoria, con la regolarizzazione degli undici milioni di indocumentados residenti da anni o addirittura da decenni negli States. Non è, però, riuscito a spuntarla. Ora la patata bollente passa a Biden, i cui margini di manovra non maggiori del passato. È questo, però, il vero muro da abbattere per il nuovo presidente Usa. E la strada per farlo si profila lunga e molto impervia.
INFO
Vecchia e nuova frontiera
Il Rio Grande determina per un lungo tratto il confine tra Stati Uniti e il Messico, punto di passaggio per i migranti. Una frontiera – lunga oltre 3mila km – non solo geografica ma anche socio economica: sin dai tempi della colonizzazione del Continente: ad esempio, negli Usa nel 2018 potevano contare su un Pil triplo di quello del Messico. Negli Usa gli hispanic (immigrati latino americani) costituiscono oggi la minoranza etnica più numerosa (18,8%). Questo nonostante che l’amministrazione Trump per scoraggiare le entrate abbia rafforzato il Muro e aumentato le tariffe doganali a El Salvador, Guatemala e Honduras. Ciò che determina la continua ricerca di afflusso verso nord sia la disastrosa questione economica degli Stati del sud del Messico, afflitti da un’elevatissima criminalità e corruzione governativa, cui negli ultimi anni si è aggiunta una crisi climatica che ha causato una forte siccità con conseguente perdita di reddito per l’agricoltura locale.
Lucia Capuzzi
NP dicembre 2020