Fame d'amore

Pubblicato il 17-01-2024

di Francesca Fialdini

Quando venne fotografata completamente nuda da Oliviero Toscani nel 2007, Isabelle Caro pesava 31 chili per 1,65 metri di altezza.
La modella francese aveva aderito alla campagna di sensibilizzazione contro i disturbi alimentari posando senza veli col fine di denunciare il proprio malessere e le condizioni del proprio fisico gravemente minato dall’anoressia.
Quei cartelloni pubblicitari in cui Isabelle ci guardava con occhi imploranti mi conquistarono, sconvolgendomi e incuriosendomi allo stesso tempo. Mi chiedevo cosa l’avesse spinta davvero a mostrarsi così, ossuta e provata: la paura di morire? La vanità? L’estrema sofferenza?
Ricordo che rimasi come incantata davanti a quell’immagine potente ed estrema, in preda a emozioni contrastanti, a tratti buie. Per quanto cercassi di codificarle non ci riuscivo. Rimanevano lì tutte insieme e intrecciate come fili elettrici in cortocircuito. Cosa mi stava dicendo Isabelle? Voleva impressionarmi?
Ferire il mio sguardo distratto nella corsa infinita verso un benessere materiale, sbattendomi in faccia il suo dolore? Voleva suscitare compassione, preoccupazione, dispiacere? Isabelle voleva scandalizzare o il suo intento era un altro? Cercavo di immaginare quanto sarebbe stata bella se non si fosse ridotta a uno scheletro vivente. Quanti anni aveva Isabelle, qual era la sua storia, chi le aveva fatto tanto male?

Quel corpo implorante è rimasto solo pochi giorni sulle facciate dei nostri palazzi, il Giurì concluse che la campagna NO-ANOREXIA fosse eccessiva e i cartelloni con la fotografia di Isabelle vennero ritirati in tutta Italia. La motivazione era chiarissima, eppure a me risuonava incredibile: secondo alcuni, avrebbe potuto suscitare emulazione e ammirazione in coloro che vedevano nel suo corpo sfinito un modello da raggiungere. Ma come? Chi avrebbe mai potuto desiderare di diventare come lei, perdendo completamente ogni forma di vitalità, di femminilità, fino a portare il proprio corpo a giocare con la morte? Era sicuramente un’immagine disturbante ma non desiderabile.
All’epoca mi dissi che Isabelle non era stata capita, che l’avevano volutamente messa a tacere. Oggi invece ho gli strumenti per comprendere che chi sosteneva quella tesi non aveva tutti i torti. Oggi so che l’anoressia prevede anche una forma di controllo esasperante e una spinta competitiva con se stessi e con gli altri malati che conduce all’emulazione reciproca. È una delle perversioni di questo disturbo, che obbliga a riflessioni importanti tutti coloro che si occupano di questi temi esprimendosi in televisione o sui social.
Per quanto mi riguarda, lo sguardo di Isabelle mi ha seguita e rincorsa. Non me lo sono mai tolto dalla testa.
È rimasto dentro di me come una domanda aperta.

Quella donna poco tempo dopo pubblicò in un libro la sua verità, raccontando la sua vita come quella di una bambina che non voleva crescere.
«Non poteva» e «non doveva» diceva, perché crescere significava tradire la mamma che la voleva tutta per sé. Ma non è qui il focus della questione. Per chi sceglie di affrontare questi argomenti anche in televisione, come ho fatto io, la domanda vera è: dobbiamo continuare a nascondere questi corpi estremi (come abbiamo fatto con la pubblicità di Toscani) oppure è arrivato il momento di accompagnare quelle immagini forti con racconti e informazioni importanti per coloro che stanno combattendo la propria battaglia col cibo? Personalmente scelgo la seconda opzione, perché il web e i social oggi hanno stravolto tutti i tempi e i modi della comunicazione, con una velocità e delle regole poco adeguate a monitorare il tipo di scambi fra i follower.
Avere un luogo – come lo è Fame d’amore – dove spiegare cosa succede a chi soffre di anoressia, quali sono i possibili scenari e percorsi di cura, dare informazioni alle famiglie che sono coinvolte e hanno bisogno di sostegno, ritengo sia oggi un modo per dare dignità a chi soffre e togliere terreno (almeno in parte) al caos imperante del web. Ossessioni comprese. […]

Dirsi la verità su questi temi tira in ballo la costruzione dei nostri miti, mette sotto osservazione il gioco di specchi che utilizziamo per definirci, per raccontarci agli altri a partire dalle parole, dal linguaggio con cui costruiamo giorno per giorno lo sguardo sociale. Ecco perché i disturbi alimentari ci disturbano (perdonate il calembour), perché cospargono di sale le nostre indicibili ferite o le nostre indicibili prigioni. Anche linguistiche.
Se in passato anoressia e bulimia sono state (giornalisticamente parlando) temi di “costume”, a questo punto credo che dovrebbero diventare temi sociali, e quindi spingerci a interrogarci sulla qualità dei nostri rapporti, in ogni campo (familiare, professionale, scolastico...).
Se le nostre relazioni primarie (quelle che ci vedono nel ruolo di figli, genitori, partner, amici, allenatori, docenti, educatori) hanno bisogno di essere scandagliate, per comprendere un malessere che non riesce a esprimersi con le parole, proviamo allora a pensare se non sia proprio il caso di iniziare dalle parole per contenere e guarire i disturbi del comportamento alimentare. Se non sia un uso del linguaggio più attento, preciso, disponibile, meno giudicante, meno stereotipato e più comprensivo a favorire l’abbattimento di un tabù anacronistico e violento quanto può esserlo un omertoso silenzio. Se i canoni estetici irraggiungibili che stiamo rincorrendo e imponendo alle nuove generazioni non siano altro che un modo come un altro per evadere da una frustrazione generale che – se affrontata – potrebbe risolversi con una risposta sana e onesta al nostro bisogno di amore.




tratto da
Nella tana del coniglio
(edizione Rai Libri)


Francesca Filadini
Focus
NP dicembre 2023

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok