ETIOPIA: Addis Abeba, bambini di strada

Pubblicato il 29-09-2011

di Redazione Sermig

Si sente parlare di Etiopia, solitamente, per le tensioni con l’Eritrea. Ma non si parla dei suoi bambini di strada, come fa l’autore di questo diario.  

di Giuseppe Bordone 

Può succedere che perdere una coincidenza aerea sia talvolta un dono inaspettato. Per me lo è stato due anni fa quando, diretto in Tanzania con due amici, fatto scalo ad Addis Abeba, perdemmo la coincidenza per Dar Es Salaam. Fummo così costretti a rimanervi per un giorno intero in attesa del volo successivo.
Quello fu anche il mio primo giorno d’Africa e il mio primo ed inaspettato incontro con i bambini di strada di Addis Abeba. Se cammini solo per le vie di Addis Abeba non puoi non incontrarli. Sono loro che ti cercano, sono loro che ti vengono incontro.
È tutto un movimento di occhietti vispi e furbi che ti scrutano e ti studiano. E sono mille le manine che ti toccano e ti pizzicano per aver la tua attenzione, tante e tante le testoline ricciolute che si accalcano, ti premono, ti spingono. Tutte vogliono aver la precedenza per un dono, un oggetto da rivendere o una moneta.
Se non sai gestire la situazione, questa ti può sfuggir di mano e puoi anche aver paura, perché non è un abbraccio facile da sciogliere ed è molto complicato districarsi tra le urla, gli spintoni, la difficoltà della lingua, tentando di essere gentile e determinato al tempo stesso. Successe così anche a me, camminando senza una meta precisa per la città, impreparato a vedere quel che vedevo, impressionato dalla miseria opprimente, dallo sterminato numero di case costruite con cartelloni pubblicitari rubati chissà dove e abbagliato dai tetti in lamiera accecanti sotto il sole.

Tutto avvenne in un attimo: fummo immersi in un mare di bambini prima festanti e poi via via più insistenti e nervosi. Ebbi ad un certo punto l’impressione che il mare si trasformasse in branco, con un comportamento preciso che non riuscivo ad interpretare. Poi, come in un branco, venne fuori un capo: non aveva più di sette anni. Aveva anche un vice della stessa età e insieme misero a tacere gli altri prendendo il sopravvento nella trattativa con noi bianchi.

Ci trovammo presto a percorrere con loro un lungo tratto di strada, seguiti a distanza da tutti gli altri, come in un corteo. La cosa che mi impressionò di più di questi bambini costretti a vivere per strada fu proprio il loro essere bambini. Abituati alla violenza e alla dura legge della strada ma anche desiderosi di carezze, di abbracci e di affetto, di considerazione.
D’improvviso constatai la mia impreparazione e la mia inadeguatezza ad affrontare quella situazione non cercata. Mi venne voglia di tornare in albergo, di chiudere gli occhi, di non vedere più nulla, di non sentire più nulla. Mi sentii avvilito nel provare questo sentimento di resa… in fondo il mio viaggio doveva avere una finalità di solidarietà, e invece… perché adesso era così prepotente la necessità di difendermi da tanta miseria, da tanta ingiustizia, da tanta disperazione? Forse perché era semplicemente troppa.
Forse perché provai a vedere questi bambini come figli miei o ad immaginare i miei figli là in mezzo a loro su quella strada e trovai la cosa intollerabile.

Come fu intollerabile vedere il piccolo capobranco balzare sullo strettissimo parapetto di un ponte alto più di 40 m e corrervi sopra chiedendo poi un compenso extra per aver rischiato la vita. E fu intollerabile poi scoprire che proprio là, sotto il ponte, era il suo ricovero. Mi indicò con un dito il fondo del precipizio: “My home” e si buttò a terra, coprendosi abilmente con un sacco che gli fungeva da mantello scomparendo per intero dalla mia vista.
Il ricordo di quel sacco, di quella corsa assurda in bilico tra la vita e la morte sopra il parapetto non mi abbandonarono più e per questo, al ritorno da quel viaggio, cominciai ad informarmi sulle condizioni di vita dei bambini di strada di Addis Abeba. Venni a sapere che lavoravano per loro alcune associazioni: una delle suore di Madre Teresa di Calcutta, un’altra ancora sostenuta da un centro di Salesiani e volontari. Sentii il desiderio di mettermi in contatto con loro e di programmare un secondo viaggio per incontrarle.

L’occasione si presentò lo scorso ottobre quando, con mia moglie, decisi di mettermi in viaggio con un gruppo di amici desiderosi di scoprire la bellezza dell’arte etiope e dei suoi monasteri copti. Ad Addis Abeba mi incontrai con don Dino Viviani, un missionario salesiano di Bormio che, con due generosissimi sposi volontari, Gigi e Chiara, e alcuni confratelli etiopi animano il centro “Bosco Children”.
Don Dino mi spiegò che Addis Abeba, il nuovo fiore, conta oggi una popolazione di 2,7 milioni di abitanti. Mi disse che è una città in fermento e in continua espansione. Dalle campagne circostanti c’è un afflusso continuo di disperati che sperano di trovare in città una sistemazione ed un lavoro. Quasi sempre è un’illusione. Intanto stime non ufficiali parlano di almeno 60.000 bambini di strada.
È l’estrema miseria delle famiglie, mi confermano don Dino e Chiara, la causa di questo straziante fenomeno.

I bambini si allontanano quasi sempre da soli da casa alla ricerca di cibo per nutrirsi e poi non vi fanno più ritorno. Come tutti i bambini di strada del mondo, anche quelli di Addis sono vittime dei più turpi e immondi sfruttamenti. Da qui la risposta di don Dino e dei suoi volontari: una piccola goccia certo in un mare di disperazione, ma una goccia importante.
Il Bosco Children può accogliere oggi circa trenta ragazzi con un programma di inserimento ben strutturato: dopo un primo contatto per le strade i ragazzi vengono prima invitati a frequentare il centro di giorno e poi inseriti giorno e notte.
Sono normalmente gli adolescenti quelli più sensibili alle offerte di aiuto: sopravvissuti alla strada, se adeguatamente aiutati, sentono la necessità di riorientare la propria vita.
Nel centro i ragazzi hanno la possibilità di studiare e/o imparare un mestiere. Dopo il necessario percorso vengono reinseriti nella società con un lavoro o, quando possibile, nelle famiglie di origine.

Don Dino è un bravo sacerdote, un animatore e un padre esigente. Capisci subito che ha una marcia in più: infaticabile, attento, amorevole ma anche inflessibile con i ragazzi. E loro lo amano. È riuscito a fare del centro una vera famiglia e Gigi e Chiara, che al Bosco Children vivono insieme ai loro due figli adottivi, sono un esempio vivente e ben visibile per tutti di un modello famigliare che funziona.
Don Dino riservò poi a me e mia moglie una sorpresa: un grande cantiere alla periferia di Addis, il nuovo e bellissimo centro che ospiterà sino a 180 ragazzi: “... Non vi sembra di essere un po’ a Torino? Quella è Superga e là il Monte dei Cappuccini ...”. In effetti tutto, lì intorno, parlava di don Bosco e di un miracolo che così lontano da Torino si stava meravigliosamente ricostruendo sotto i nostri occhi. Donne, tante, insieme con altri uomini e ragazzi, con ritmi lenti ma instancabili costruivano un complesso di edifici che in Addis non ha eguali. “Questo è il refettorio, questo l’oratorio coperto, questa la sala lettura, là in fondo i dormitori... e quelli sono i laboratori. Quelle le officine!... ”.
Gli occhi di don Dino parlavano da soli e la gioia era incontenibile.

Poi, i racconti di tante piccole vite, di incontri, di fughe, di ritorni: tanti piccoli episodi straordinari che ci commossero sino alle lacrime. E ancora, insistenti richieste di preghiera.
Compresi finalmente il senso delle parole di Dom Luciano Mendes de Almeida: “I bambini di strada non sono il problema. Sono la soluzione dei nostri problemi, se ci apriamo a capire le cause che li spingono in strada e ad eliminarle”. Là in mezzo a quel cantiere operoso ebbi la certezza che don Dino stesse dando concretezza a queste parole.

Sul “Bosco Children”
vedi: ETIOPIA: “I am Stefanos”

Per approfondimenti sull’Etiopia:
ETIOPIA: LALIBELÀ
ETIOPIA: diario di viaggio
ETIOPIA - ERITREA: “Kemey tknoi aleki?”… Come stai?

 

 

 

 

 

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