Cose della vita

Pubblicato il 20-06-2020

di Matteo Spicuglia

La quarantena raccontata da uno studio televisivo. Una lezione per il domani…

 

Quando tutto si ferma, tutto affiora. Mai come in questi mesi è stato chiaro. Un virus sconosciuto che si mostra all’improvviso, spazzando via certezze, abitudini, routine. Una Nazione intera costretta a chiudersi in casa in attesa che il peggio passasse. È proprio in quel momento che abbiamo cominciato a vedere in modo più chiaro. Abbiamo visto affiorare inquietudini personali che non conoscevamo. Ma non solo. Ci siamo confrontati con le storture del nostro modo di vivere: i limiti del nostro sistema scolastico che c’erano già prima, le disuguaglianze che in qualche modo erano in grado di mimetizzarsi, le incertezze economiche spesso nascoste come polvere sotto il tappeto, la logica singolare del consumo fine a sé stesso.

 

Ma quando tutto si ferma, affiora anche il bene, risorse inimmaginabili, un senso di comunità che potrà aiutarci anche nei prossimi mesi. Per quanto mi riguarda, l’ho colto in uno studio televisivo. Sono un giornalista della Rai e dal primo giorno di lockdown, ogni mattina sono stato il volto del nostro primo appuntamento informativo. Non è stato semplice. In video devi portare la tua professionalità, la tecnica di un mestiere che hai coltivato nel corso degli anni. Ma non basta di fronte a decine di morti giornalieri, a migliaia di contagiati, a famiglie che hanno paura e che soffrono. In una situazione così, devi portare anche la tua umanità, un’idea di comunicazione che prima di tutto decide nell’intimo di farsi vicina.

 

È stato così per oltre due mesi, tra alti e bassi, tra i pensieri che ti accompagnano e la funzione del ruolo che metti al di sopra di tutto. Ero solo, in uno studio ridotto all’osso anche da un punto di vista tecnico. Solo, ma osservato. Non mi è mai capitato di ricevere così tanti messaggi. Persone che ringraziavano, che cercavano un confronto, che semplicemente volevano condividere. La quarantena forzata si è mostrata attraverso centinaia di foto e video. Lo spaccato sereno di chi aveva riscoperto la lentezza per dedicarsi a hobby magari dimenticati. Ma anche la fragilità estrema. La solitudine del signor Carlo, per esempio. Un breve video mostra lui, elegantissimo, dietro a una torta alla panna con le candeline: i suoi 80 anni festeggiati da solo e la richiesta di poter condividere con tutti quel traguardo.

 

Oppure, le foto di un salotto pieno di letti. Un messaggio che spiega il dramma: «Sono una donna sola con quattro figli. Viviamo in 50 metri quadrati. La quarantena è dura. Parlate di noi!». E ancora, l’ingegno di genitori che si sono inventati di tutto per rendere più leggere le giornate dei loro figli. Un papà che ha letteralmente smontato casa per creare un percorso motorio tra sedie, tavoli e tavolini. «In questo modo – ha scritto – il mio bambino può fare movimento».

 

È stato bello accompagnare, dare voce alla vita rinchiusa tra quattro mura come alle decine di iniziative di volontariato per aiutare i più deboli. Ma è stato importante condividere anche il dolore, raccogliere gli appelli di chi aveva parenti in una casa di riposo ed era schiacciato dalla preoccupazione, accogliere il ricordo di chi se ne è andato per sempre attraverso le testimonianze di chi è rimasto.

 

Sono le tante sfumature della vita condensate in un programma televisivo trasmesso nel cuore di un’emergenza. Sfumature sempre presenti, eppure così difficili da cogliere in tempi normali. Cosa resterà di tutto questo? Dipenderà da ognuno di noi. Il coronavirus ha ricordato al mondo del giornalismo il valore imprescindibile di informare ed essere informati, ha riportato all’osso l’essenzialità di questa funzione, al di là dei particolarismi, della smania di visibilità o di successo, ha rimesso al centro anche una forma di umiltà dell’apparire. Perché di fronte alla morte, puoi entrare nelle case altrui solamente in punta di piedi.

 

Tutto questo è un patrimonio da dimenticare o rilanciare, da archiviare come un’esperienza limite o da mettere al centro della ripartenza. Ripeto, dipenderà da ognuno di noi. Personalmente, sono sempre più convinto che il giornalismo non possa impantanarsi nelle mezze misure: o vive di prossimità o diventa niente, o è a servizio della comunità o non ha senso, o accetta di alimentare anche la speranza o diventa irrilevante. Questione di scelte. Nient’altro… 

 

Vedi il focus Riflessioni in tempo di Covid 19

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