C'è ancora vita

Pubblicato il 17-03-2024

di Redazione Sermig

In Italia le persone con più di 65 anni sono complessivamente 14 milioni e 177mila, il 24,1% dell’intera popolazione.
Gli ultraottantenni, in particolare, sono 4 milioni e 530mila, il 7,7% della popolazione.
Queste persone in molti casi sono ben integrate nella comunità e continuano a dare un contributo irrinunciabile alla coesione familiare e sociale, grazie alla buona salute favorita dalla dieta mediterranea e dal Sistema sanitario nazionale presente nel nostro Paese e grazie al volontariato e alle altre iniziative per l’invecchiamento attivo che coinvolgono in modo massiccio gli anziani italiani.

Purtroppo – sui 14 milioni di over 65 – 3,8 milioni sono non autosufficienti e molti altri vivono soli.
È un tema prioritario per la Pubblica Amministrazione e per il Terzo Settore, perché l’andamento demografico renderà questo numero sempre più grande nei prossimi anni, rendendo necessari interventi preparatori. Ne va della sostenibilità della sanità e del welfare, essendo gli anziani i principali fruitori di questi servizi, ma anche del grado di civiltà della nostra democrazia, che già oggi abbandona molte di queste persone, sebbene siano pienamente titolari dei diritti di cittadinanza.
La sanità dovrebbe essere vicina a queste solitudini, rendendo le politiche per la non autosufficienza un diritto di cittadinanza, che riguarda non solo gli anziani ma anche i disabili non autosufficienti.
La famiglia non può essere un succedaneo del Sistema Sanitario Nazionale, eppure oggi il carico di cura delle persone non autosufficienti è in gran parte sulle spalle delle famiglie.

L’insufficienza di interventi pubblici di sostegno alle persone non autosufficienti sta producendo effetti drammatici sulla popolazione italiana:
dall’impoverimento dei nuclei familiari che devono farsi carico dell’assistenza familiare a domicilio o dei posti letto nelle RSA, alle gravi problematiche che colpiscono le dinamiche familiari quando l’impegno di assistenza diventa insostenibile, con la rinuncia alla dimensione lavorativa per chi non può fare a meno di dare assistenza ma non può usufruire dei congedi retribuiti, fino ai gravissimi rischi di solitudine e abbandono per i malati che non dispongono di solide relazioni sociali e di reti familiari. La convinzione diffusa che l’assistenza alle persone non autosufficienti sia esclusivamente a carico dei nuclei famigliari, in ragione dell’assenza o debolezza dei servizi pubblici di supporto, costituisce un serio problema culturale, che alimenta nelle famiglie un lacerante senso di abbandono. Il rischio più grande è quello di un vero e proprio fenomeno di “eutanasia da abbandono”: pazienti cronici anziani che non ricevono più le cure necessarie.

Oggi esiste l’urgenza di aggiornare i modelli di cura.
Occorre evitare la cristallizzazione di procedure non più adeguate ai bisogni e smettere di considerare il malato come un “cliente” o come un “oggetto di cure”, ma come una persona a cui va sempre riconosciuta dignità, anche quando non c’è speranza di guarigione. Si deve infatti curare con amore anche chi non è guaribile. Per questo le cure domiciliari e residenziali rivolte alle persone non autosufficienti, croniche, psichiatriche e con malattie neurodegenerative rappresentano la nuova frontiera non solo del sociale, ma soprattutto della sanità italiana.
Se da un lato l’offerta di posti letto residenziali deve essere in una misura congrua alla richiesta e ai bisogni della popolazione, soprattutto per determinate patologie e per le situazioni abitative e familiari inadeguate, dall’altro è necessario prestare altrettanta attenzione alla garanzia di cure e assistenza presso il domicilio, considerando che le cure domiciliari garantiscono maggiore qualità di vita per gli utenti e per le loro famiglie, interventi più personalizzati, costi più bassi per la collettività, riduzione dei ricoveri ospedalieri inappropriati e degli intasamenti dei pronto soccorso. Queste cure sono più appropriate, meno costose e più rispettose dei legami affettivi e comunitari, che sono parte dell’identità della persona e concorrono al suo benessere non solo relazionale, ma anche sanitario.

Vanno messi in contatto l’ospedale, il domicilio e l’RSA in modo fluido.
Se il Sistema Sanitario Nazionale, la più grande conquista degli anni ‘70, non viene riformato per far fronte al grande cambiamento demografico italiano, rischierà di sfiorire o di essere a poco a poco sgretolato.
Accanto agli interventi sanitari, occorre potenziare quelli sociali: reti di vicinato, coprogettazione tra il Terzo Settore e i comuni, gemellaggi intergenerazionali tra oratori ed RSA, RSA aperte al territorio, portinerie sociali in ogni condominio, co-housing per anziani autosufficienti… Tutto quanto possa far sentire meno sole le persone anziane, soprattutto nelle grandi città dove il rischio di anonimato e isolamento è più alto. La fraternità non deve trascurare chi è più invisibile e vive più appartato, chi ha una voce più flebile o è dimenticato dai circuiti mediatici. La logica dell’efficienza e dell’immagine non può prevalere. I nostri anziani sono le nostre radici e sono coloro che hanno lavorato per costruire il nostro Paese, non possiamo trattarli come scarti nella fase più fragile della loro vita.


A cura della Redazione
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NP febbraio 2024

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