Beirut non è in vendita

Pubblicato il 15-11-2020

di Anna Galvagno

Il 2 settembre scorso, a quasi un mese dall’esplosione del 4 agosto che ha spazzato via il porto di Beirut, in un dibattito online organizzato dall’associazione locale Impact Lebanon si parla di inclusione sociale e urbanistica. La domanda che i partecipanti si pongono è: a quale principio deve sottostare la ricostruzione del porto e del centro di Beirut?

Il pensiero va al 1990: la ricostruzione post-guerra civile era avvenuta sotto il segno di un’espropriazione selvaggia da parte della società immobiliare Solidere. Uno sviluppo urbano di stampo neoliberale, appoggiato da istituzioni corrotte e senza un minimo di partecipazione democratica, ha portato all’espulsione dal centro dei piccoli proprietari e la creazione di uno spazio sociale esclusivo, proiettato al turismo di lusso.

È necessario quindi guardare a questa ricostruzione con occhi nuovi. Come integrare la giustizia sociale, la riappropriazione democratica di uno spazio che torni in mano agli abitanti, che sia vissuto?

Bisogna considerare che il panorama economico e politico libanese è molto diverso rispetto agli anni ‘90. Non c’è una speculazione privata così forte, manca l’afflusso di capitali stranieri di un tempo. Questo porta a una maggiore mobilitazione interna: molte ONG locali e i sindacati di alcune professioni, come gli architetti e gli ingegneri, si sono attivati per rompere il cerchio della ricostruzione calata dall’alto. La rete Beirut Urban Lab si pone l’obiettivo di chiamare in causa anche le categorie più vulnerabili della popolazione, come i rifugiati palestinesi e siriani.

In più, non si deve per forza fare tutto da soli. Esistono già piani di ricostruzione post-bellica inclusivi e ragionati secondo principi non legati al profitto. La ricostruzione di Aleppo, in Siria, sta seguendo una metodologia studiata dalle Nazioni Unite che comprende workshops comunitari e inclusivi. È un processo di ricostruzione sicuramente più lento, perché non si basa sul principio di crescita economica, ma di sviluppo umano e comunitario. Accanto alla rabbia, alla frustrazione e al dolore, si avverte la presenza di un ecosistema di cambiamento, in Libano. Già lo si respira in questa conferenza, che si conclude con due punti da sciogliere.

Da un lato, lo sforzo della società civile non basta. Le istituzioni devono tornare ad essere alleate del popolo libanese, mediante una nuova legge elettorale e una riforma del sistema giudiziario. Dall’altro lato, anche se i capitali privati non sono da osteggiare a priori, è necessario tenere lontani dal processo di ricostruzione quegli interessi interamente votati al profitto di pochi, e aprire la strada agli investitori aperti al confronto con i veri protagonisti della ricostruzione: gli abitanti di Beirut.


Anna Galvagno
NP ottobre 2020

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