A una mamma
Pubblicato il 20-12-2020
C’è una storia nascosta nei sotterranei del cimitero monumentale di Torino. La storia di una giovane mamma morta ad appena 27 anni nel 1940. Si chiamava Romanework, era una principessa, la prima figlia del negus di Etiopia Hailé Selassiè. La sua tomba è spoglia: una lapide con una scritta in italiano e una in amarico, la lingua della sua terra. Sopra il suo loculo, anche quello del figlio Chetacceu, morto appena quattro anni dopo nel 1944. Vivevano tutti ad Addis Abeba, morirono a Torino. Perché?
Nelle pochissime foto degli anni ’30 ancora disponibili, Romanework appare fiera, con gli abiti del suo rango, l’acconciatura perfetta: la testimonianza di una normalità che si sarebbe infranta per sempre. Quel mondo fatto di tradizioni secolari, di fede e di cultura antichissime, fu colpito al cuore dall’invasione italiana del 1935-36 che fece terra bruciata, anche con l'uso delle armi chimiche.
Con la caduta di Addis Abeba, la famiglia imperiale fu condannata all’esilio. Il negus e gran parte dei suoi parenti si rifugiarono in Inghilterra, a Londra. Romanework invece decise di stare a fianco del marito Merid Bayané, uno dei comandanti della resistenza anti italiana. Avevano quattro figli e l’attaccamento alle radici fu più forte di tutto.
Romanework restò in patria perché sentiva di essere al posto giusto. Nel 1937, però, Bayané fu catturato e ucciso e per lei e i bambini si aprirono le porte della deportazione in segreto nel campo di prigionia dell’Asinara, in Sardegna. Furono mesi terribili, segnati da umiliazioni, stenti e un dolore atroce: Gideon, il figlio più piccolo, morì ad appena due anni.
La svolta avvenne con la visita all’Asinara di monsignor Gaudenzio Barlassina, superiore delle Missioni della Consolata. Fu lui a riconoscere la principessa, già incontrata in Etiopia durante i suoi 16 anni di missione. La notizia fece clamore e il regime per evitare un caso diplomatico accettò la proposta, sostenuta anche dalla regina Elena, di affidare la principessa proprio ai Missionari della Consolata.
Romanework e i tre bimbi arrivarono così a Torino, nella Casa di San Michele, vicino all’ospedale delle Molinette. Qui furono seguiti da una religiosa dal cuore grande, suor Battaglia, che fece di tutto per restituire calore e dignità alla principessa.
Erano anni difficili, ma suor Battaglia riuscì a trovare vestiti, una sistemazione comoda, qualche giocattolo per i bambini, soprattutto la possibilità di farli andare a scuola. Anche Romanework riuscì a ritrovare un po’ di pace. La vita tuttavia a volte sa essere terribile e crudele.
Nell’autunno del 1940, a pochi mesi dall’inizio della guerra, la principessa si ammalò di tubercolosi. Non c’erano cure. Fu ricoverata d’urgenza alle Molinette, in un reparto che affacciava proprio sulla Casa di San Michele. In archivio, sono rimasti ricordi tenerissimi, come quell’immagine di lei da dietro le finestrone dell’ospedale e i bambini che la salutavano dal cortile della casa.
Purtroppo durò poco, perché il 14 ottobre Romanework morì. I bambini fino alla fine della guerra rimasero con le suore, ma uno dopo l’altro raggiunsero la mamma: Chetacceu sempre di turbercolosi, gli altri due invece morirono una volta rientrati in Etiopia.
La tomba di Romanework rimase anonima per decenni. Appena una scritta: “A una mamma”. La storia continuava ad essere politicamente imbarazzante. Solo negli ultimi anni su quella lapide è ricomparso un nome.
Oggi la vita spezzata della principessa e dei suoi bambini parla ancora. Avrebbero potuto vivere tranquillamente nella loro terra, magari in pace, a servizio del loro popolo. Non fu così. Il loro ricordo sia monito e testimonianza di quanto è assurdo il male causato dalla guerra.
Matteo Spicuglia
NP novembre 2020