Le ferite di Sarajevo trent’anni dopo la guerra di Bosnia

Pubblicato il 23-12-2022

di Paolo Siccardi

Nessuno a Sarajevo dimentica il 1984, l’anno delle Olimpiadi invernali, l’ultimo sprazzo di normalità nella città che con orgoglio amava definirsi la Gerusalemme d’Europa. Era vero! Una città ponte, crogiuolo di culture e religioni diverse, in grado di accogliere nel centro storico un’antica moschea, la cattedrale ortodossa, quella cattolica e due sinagoghe. Tutto a distanza di poche centinaia di metri. Il lascito di una storia secolare fatta di dominazioni: il medioevo del regno di Ungheria, l’impero ottomano fino al 1878, poi l'mpero austroungarico, i regni slavi, fino alla Jugoslavia del generale Tito. Differenze capaci di stare insieme, nonostante tutto.

Le immagini sono tratte dalla mostra di Paolo Siccardi - I giorni dell'assedio di Sarajevo

Sarajevo 1992.
VEDRAN SMAILOVIC, primo violoncellista della Filarmonica di Sarajevo, suona per 22 giorni L’Adagio in Sol minore di Albinoni tra le rotaie e i treni divelti dalle esplosioni.
Ricorda in questo modo i sedici civili uccisi il 27 maggio 1992 da un colpo di mortaio mentre facevano la fila per comprare il pane.

 



Le Olimpiadi furono una vetrina e un volano economico. Lo stadio olimpico è ancora lì sulle alture che sovrastano il fiume Miljacka.
Ma il paesaggio è cambiato. Oggi non ci sono più prati, ma cimiteri: grandi distese di tombe bianche, musulmane e cristiane.
Uomini e donne di ogni età, tutti morti tra il 1992 e il 1995. Chi non conosce la storia sul momento non capisce, ma quelle date impresse nel marmo sono l’eredità del buco nero degli anni Novanta, delle guerre che per quasi dieci anni insanguinarono i Balcani dopo la dissoluzione della ex Jugoslavia.
Con il crollo del comunismo e della dittatura socialista, finiva l’utopia di un Paese che provava ad unire popoli diversi. Prima l’indipendenza della Slovenia, poi della Croazia, infine della Bosnia Erzegovina. Con la Serbia indisponibile a essere ridimensionata e pronta a difendere fino in fondo i diritti delle sue minoranze.
Il furore nazionalista presente in ogni gruppo fece il resto: sangue a fiumi in Croazia, ma soprattutto in Bosnia, il Paese più complesso e articolato con serbi, croati e bosgnacchi musulmani difatto mescolati.
Sarajevo diventò una città martire, lo scenario dell’assedio militare più lungo dai tempi della Seconda guerra mondiale.



Dal 1992 al 1996, la città rimase senza cibo, acqua, riscaldamento con i civili nel mirino delle bombe e dei cecchini serbi disposti sulle montagne intorno alla città.
Ulica Zmaja od Bosne è ancora chiamato “viale dei cecchini”: la gente per evitare i proiettili correva, si riparava alla meglio, ma non tutti ce la facevano. Alla fine della guerra, i morti furono 12mila, quelli che oggi riposano nei prati del parco olimpico.



Il cimitero del Leone è affacciato davanti allo stadio. Apparentemente anonimo, eppure quanti nomi, quante storie.
All’estremità, sul lato destro, c’è una tomba diversa dalle altre: un cuore di marmo, l’immagine di due giovani abbracciati, due nomi soltanto, quelli di Bato e Admira.
Sono il simbolo dell’assedio, due ragazzi ricordati ancora come i Romeo e Giulietta di Sarajevo.
Caduti anche loro sotto il fuoco dei cecchini, ad appena 25 anni.
Bato era serbo ortodosso, Admira musulmana: nella logica folle di quegli anni, rappresentanti di due fronti opposti. Ma Bato e Admira prima di tutto si amavano.
Si erano conosciuti anni prima, quando la guerra ancora era lontana, sognavano una famiglia, una vita insieme, un futuro. Nel maggio del 1993 decisero di scappare dalla città: una scelta pericolosissima, ma inevitabile. A cadere sotto il fuoco dei proiettili fu prima
Bato, morto sul colpo, poi Admira, che nonostante le ferite riuscì a raggiungere il fidanzato per unirsi a lui in un abbraccio eterno. I loro corpi rimasero sul ponte Vrbanja per otto giorni, come un monito a chi avesse provato a fare altrettanto.
Servì una tregua tra le parti per permettere la sepoltura.

          

Oggi la tomba di Bato e Admira continua a parlare. Insieme anche da morti. I famigliari senza distinzione di religione o etnia continuano a deporre un fiore, a pregare, ad alimentare il ricordo.
Perché questi due giovani hanno testimoniato con la vita la scelta di unire non solo i cuori, ma anche i destini. Ne fossero capaci oggi i loro popoli! Purtroppo, non è così, perché la guerra ha lasciato macerie fisiche e morali, divisioni ataviche. Il conflitto ufficialmente è terminato nel 1995 con gli accordi di Dayton.   

Ma dove non si combatte più con le armi, lo si fa con i nazionalismi, con memorie contrapposte, con chiavi di lettura degli eventi totalmente diversi, con una giustizia non ancora piena.
Perché i tribunali internazionali hanno condannato i responsabili principali dei crimini, circa 200, ma secondo una stima approssimativa gli esecutori a piede libero sono oltre 10mila.
La logica della guerra ha vinto, ha congelato le divisioni, non ha fatto rimarginare le ferite né fatto germogliare il perdono, possibile solo nell’accoglienza reciproca, nella disponibilità a riconoscere il dolore degli altri.
Un dolore che purtroppo, in molti casi continua ad essere delegittimato o strumentalizzato.
La prova di come le armi uccidano davvero tante volte, non soloquando vengono usate. La pace fredda di Bosnia lo dimostra: trent’anni non sono bastati per costruirla e consolidarla.

NPEYES
Foto Paolo Siccardi
Testi Matteo Spicuglia
NP Ottobre 2022

 

 

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