Vite invisibili
Pubblicato il 24-08-2021
Erica Bernardini, regista, sceneggiatrice e produttrice cinematografica di origini italiane, da oltre 20 anni si occupa della promozione dello scambio culturale tra Brasile e Italia. Lo scorso anno, già in piena pandemia, viene a contatto con la vicenda dell’Arsenale della Speranza trasformato in quarantena 24 ore su 24, 7 giorni su 7 per centinaia di persone che non avrebbero avuto una casa dove rifugiarsi. Decide di farne un documentario: Vidas (in)visíveis – um Arsenal de Esperança, presentato in occasione del 15º Festival del cinema italiano in Brasile (24/11– 08/12/2020), con il patrocinio del Consolato Generale d’Italia a San Paolo, e ora disponibile su varie piattaforme digitali. L’abbiamo intervistata.
Come hai conosciuto l’Arsenale della Speranza?
Tramite un amico fotografo, José Luiz Altieri Campos, che è volontario all’Arsenale da tanti anni. Ho sempre trovato quel luogo molto interessante, con un lavoro di accoglienza portato avanti da missionari italiani proprio dove – l’Hospedaria de Imigrantes – i nostri nonni e bisnonni vennero accolti dai brasiliani. Il fatto che oggi quel luogo continui ad accogliere persone, offrendo loro anche la possibilità di studiare, di una formazione professionale, di una cura medica ne fa un’esperienza unica.
Come ti è venuta l’idea di realizzare un documentario?
È stato proprio grazie a José Luiz che a metá dello scorso anno mi ha cercato per dirmi che lui e un altro fotografo milanese, Luca Meola, avevano avuto l’idea di raccogliere decine di testimonianze di ospiti durante il periodo in cui l’Arsenale della Speranza era stato trasformato in una grande quarantena, esattamente dal 23 marzo al 28 giugno 2020. José mi ha fatto vedere alcune delle foto scattate da Luca e diverse testimonianze di uomini che erano rimasti in quarantena per più di 90 giorni in quello spazio per proteggersi dal Covid-19. Era un materiale incredibile! Da allora ho iniziato ad approfondire, ad appassionarmi a questa storia che doveva essere assolutamente raccontata. Per me, come produttrice, il cinema è questo: una finestra per raccontare una storia.
Qual era l’idea?
Sin da subito l’obiettivo non era di raccontare una storia di persone con problemi, con dipendenze, tristi o sole, ma di persone che volevano essere viste, che volevano raccontare la loro storia: persone con talento, con una professione, persone che ad un certo punto della vita si sono perse, ma che lì avevano trovato un luogo accogliente, che non solo dava loro un piatto di cibo e un letto, ma una casa dove c’era vita, c’era speranza ed un cammino con una via d'uscita, un cammino non facile, ma possibile e supportato da un lavoro missionario impressionante perché quando ci si ferma anche solo per un attimo a pensare al numero di pasti, di letti e di tutto il resto si tratta davvero della gestione di una piccola città.
Avete lavorato in tempi record...
Da quando ci siamo convinti che questa cosa andava fatta, la mia socia, Carla Luzzatti, e tutte le persone che lavorano con me si sono commosse nel conoscere quello che stava accadendo dentro l’Arsenale. A quel punto ho potuto contare non solo sulla competenza di professionisti, ma sull’entusiasmo di amici che hanno unito le loro forze per raccontare questa storia incredibile.
Cosa hai imparato da questa esperienza?
Sono soddisfatta del lavoro realizzato, ma soprattutto sono contenta per quello che ho imparato, come essere umano. Oggi posso dire che per me l’Arsenale della Speranza è un luogo in cui si entra con un "io" e si esce con un "noi", l’io diventa noi. Penso che sia la cosa più importante che ho imparato durante le registrazioni e spero davvero che il nostro documentario contribuisca a far conoscere a tantissime persone l’incredibile lavoro dell’Arsenale che da visibilità e dignità a tantissime persone che per lo più sono invisibili o disprezzate.
Un sogno per il futuro?
Mi piacerebbe moltissimo portare Vidas (in)visíveis in Italia, lavoreremo in questa direzione.
Simone Bernardi
NP aprile 2021