Gianni Maddaloni: Non basta dire educazione

Pubblicato il 08-02-2017

di Renato Bonomo

A Scampia, una palestra per educare attraverso lo sport.

Gianni Maddaloni è stato l'ospite del quarto incontro della sessione 2015 2016 dell'Università del Dialogo del Sermig. "Assediato" letteralmente dai giovani presenti, ha presentato con una grinta nutrita da convinzioni profonde il suo lavoro di allenatore di judo ai bambini di Scampia. Tra mille difficoltà, ogni giorno con i suoi collaboratori - fra i quali la sua famiglia - testimonia la speranza.

Ecco una piccola sintesi del suo intervento.

Ognuno deve fare quello che sa fare, io voglio fare il bene mediante quello che so fare, lo sport. Voglio dare una mano alla mia gente, perché sento che è importante amare la propria terra nel modo più concreto possibile.
Sono un papà di tre figli, tutti sportivi come me, in particolare mio figlio Pino ha vinto una medaglia d'oro di judo nel 2000 a Sidney. Ho capito quanto sia importante non tradire i sogni dei bambini: soprattutto da quando hanno visto nell'impresa di mio figlio un modello positivo, prima avevano solo quello negativo dei boss mafiosi. Pino ha dato risalto a Scampia, dopo Sidney tutto è cambiato. Sono arrivati 50.000 euro da importanti gruppi industriali e io li ho investiti in un’attività sportiva per 1200 ragazzi.

Dopo il successo olimpico ho rifiutato di aprire palestre in luoghi privilegiati: io sono nato tondo e non morirò quadrato... Apro le porte a chi non può pagare, chi può pagare paga, magari anche per chi non può. Apro le porte ai ragazzi che hanno bisogno di un'opportunità di vita, soprattutto i figli dei carcerati.
Ricordo un bambino, Antonio, figlio di un detenuto trasferito lontano da Napoli. Già ad 11 anni diventa bullo, un violento. Ho scoperto che aveva un talento per la musica. Suonava ad orecchio melodie bellissime, adesso – ecco perché dico che è importante trovare l'amico giusto al momento giusto – studia al Conservatorio.

Un educatore sportivo deve educare con lo sport ma soprattutto con l’amore. I figli non sono quelli che si fanno, sono quelli che si crescono: io sono diventato padri per molti.
All'entrata della mia palestra è appeso un decalogo di comportamento. Deve servire per tutti, abili o disabili, detenuti o allievi dei quartieri "bene". Io cerco di dire sempre di sì ma lo faccio se le regole vengono rispettate. E le regole funzionano, anche se per alcuni ci vuole molta severità, occorre fare subito chiarezza: lasciare stare certi atteggiamenti che ti suggeriscono gli amici "sbagliati": hai bisogno di amici giusti per salire in alto!

La palestra è diventata un luogo i riferimento per la gente di Scampia, quasi come una chiesa... Nella mia palestra vivono i sogni, i sogni delle olimpiadi, io e i miei ragazzi vogliamo vincere delle medaglie, ma accanto a questi sogni, è presente una dimensione di solidarietà. Mi scrivono tante madri senza marito che vogliono aiuto, sostegno. Così è nata una rete di solidarietà che si alimenta e cresce. La palestra è un bene del Comune diventata un bene comune. Altri beni del Comune sono beni solo di alcuni.
A volte però mi sento solo. Non sono molte le associazioni sportive che aiutano la società. Io aiuto dei detenuti ma da luglio verranno meno i fondi. Sto inventando dei modi per aiutarli: magari con i fondi delle scuole li facciamo lavorare pitturando le aule...

In tutte le città c’è una Scampia dove non c’è nulla se non l’amore dei genitori. Centomila abitanti, una sola piscina, una palestra, un campo da calcetto.
Per la periferia non c’è bisogno di riscatto ma di opportunità. Un detenuto forse deve riscattare qualcosa, ma una persona della periferia che lavora sodo tutto il giorno, che cosa deve riscattare? Io ho fiducia nei giovani, ma ho spostato la mia attenzione verso i bambini di 6 anni. Parlare agli adolescenti è difficile, il bambino è un foglio bianco a cui insegnare le regole del gioco. Le regole del gioco sono le regole della vita. Chi è scorretto in campo, lo è nella vita. I giovani devono svegliarsi, devono ribellarsi in maniera civile. I giovani sono il presente, non devono avere paura del futuro. Ragazzi, fatevi sentire, usate i vostri cellulari, usate i social network per farvi sentire dal governo, da chi comanda. Dovete pretendere le opportunità che vi spettano...

Si gioca per vincere ma soprattutto per divertirsi. Bisogna caricarsi, giocare per gli altri. A 16 anni ero un monello però il mio maestro è stato bravo perché prima di tutto mi ha fatto dello sport e poi del judo. Mi ha preso toccandomi il cuore, mettendola sul personale e non sulla tecnica. Tra maestro e allievo deve nascere una comunione, occorre essere se stessi e amare i ragazzi. Ora nella mia palestra siamo in mezzo a mille problemi come le bollette da pagare, però Dio esiste e prende la forma di tanta gente che mi aiuta.

Renato Bonomo



Foto: A. Gotico / NP

 

 

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