Lo sguardo sull’altro

Pubblicato il 26-05-2022

di Matteo Spicuglia

The reflection of Father Claudio Monge, a Dominican in Istanbul, a frontier land

Le relazioni vere nascono dalla capacità di ascolto, dalla disponibilità a incontrarsi nonostante differenze e contraddizioni. Molto spesso in terre di confine. Un metro che vale per i singoli, ma anche per gli Stati. Padre Claudio Monge è esperto di quest’arte. Domenicano, da tanti anni a Istanbul, ha messo a fuoco uno sguardo molto particolare. Oggi ha capito che “i confini sono mobili” e che serve davvero “l’umiltà di non sedersi, di sentirsi pellegrini e in cammino”: un percorso verso l’essenziale.

Eppure, l’altro – che siano persone, Paesi o culture – ci spaventa…

Sì, perché l’altro non è un semplice specchio dove riflettermi, ma mi rinvia un’immagine inedita di me stesso. Ma è la sfida che dobbiamo accettare. Pensiamo alla metafora, ma anche alla concretezza di una frontiera: al tempo stesso è un luogo di passaggio, ma anche un limite, qualcosa che ti confina. Da una parte, può far paura e invitarti al ripiegamento; dall’altra, può essere lo stimolo continuo a ripensare a quello che sei. Le identità buone sono quelle capaci davvero di interrogarsi, crescere, riflettere. Questo lo diceva già in modo mirabile un filosofo del ‘900, Ludwig Wittgenstein. Spiegava che il confine di un’isola può essere davvero lo spazio limitato di un territorio geografico molto piccolo, ma se lo guardi dall’altra parte dell’orizzonte vedi un oceano che apre orizzonti a volte inquietanti, ma anche percorsi di speranza per remare con coraggio. Penso anche all’insegnamento di mons. Pierre Claverie, vescovo di Orano, ucciso durante la guerra civile di Algeria. Egli amava ripetere che come testimoni del Vangelo siamo chiamati ad abitare le linee di frattura dell’umanità, dei luoghi di faglia, che sono dei luoghi estremamente scomodi perché la faglia in quanto tale è un precipizio e tu hai l’impressione di non avere più i piedi fermi né da una parte né dall’altra. Io credo che noi cristiani possiamo avere un ruolo decisivo in un mondo diviso e polarizzato, nella misura in cui accettiamo di costruire ponti. Abitare certe divisioni significa dare speranza e creare opportunità.

Come si fa in concreto?

Spesso e volentieri abbiamo fatto della fede un’ideologia, una sorta di corazza identitaria, ma non è la strada. La fede è il tentativo di guardare il mondo come Dio lo guarderebbe e cioè con amore, con misericordia, con passione. Ma non solo. Questo sguardo che è nel tempo, va anche al di là del tempo. A noi alcuni cambiamenti storici ci sembrano epocali, dei punti di non ritorno. Dio ha un’altra prospettiva. I mille anni nostri sono un turno di veglia della notte, come dice il salmista. Lo sguardo di Dio vede lungo, non si perde là dove invece noi tendiamo a perderci o a passare di catastrofe in catastrofe, di disperazione in disperazione. Dio sa sempre ogni volta rilanciare e incoraggiarci. Credo che dovremmo imparare molto da lui.

Aprirsi all’incontro e alle diversità dovrebbe essere il primo compito della politica e anche di ognuno di noi…

Certo, noi siamo il frutto di un incontro di diversità e dobbiamo anche accettare la complessità in cui siamo immersi. Noi siamo chiamati da sempre a fare questo, ad aprirci a questa alterità. Un bambino piccolo scopre prima il volto della madre che il suo stesso volto. Imparando a toccare progressivamente il naso e i lineamenti della madre ritroverà delle cose simili su se stesso, ma può farlo solo dopo aver scoperto la diversità di chi lo ha messo al mondo. È vero, nella società di oggi tutti i processi sono accelerati e non è semplice. Penso all’umanità che preme alle nostre frontiere e al ripiegamento di noi occidentali. Ancora una volta io credo che si tratti di governare questi processi, con il metodo dello sguardo che dicevamo. Noi siamo chiamati oggi a far diventare la diversità una grande opportunità, conformando il nostro modo di vedere ai vasti orizzonti di Dio.

E nel rapporto uno a uno, come si può crescere? La pandemia ha instillato anche paura e diffidenza…

È vero. Questi due anni hanno complicato molto le cose, ma un punto fermo c’è. L’altro che ho davanti rimane sempre un dono che non può essere preteso o predeterminato. È un regalo che devo spacchettare ogni volta, consapevole che io stesso devo essere dono per l’altro. All’interno di queste dinamiche è difficile affrontare il faccia a faccia uscendone indenni e non feriti. Chiaramente a questo si aggiunge poi la capacità infinita e continua di perdono, di chiedere perdono e domandare perdono. Anche questa è una testimonianza che possiamo dare come cristiani: la capacità di ripristinare mille e mille volte un rapporto ripartendo dal riconoscersi peccatori e deboli. Solo l’abbraccio dell’altro ricostruisce la comunione.

Matteo Spicuglia

NP Febbraio 2022

 

MONS. PIERRE CLAVERIE, ucciso durante la guerra civile di Algeria

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