Speranza in cammino

Pubblicato il 31-08-2009

di Renato Rosso


Tempo di Quaresima, tempo di pellegrinaggio verso Gesù. Che inizia fermandoci ad “aspettare le nostre anime”, come insegna la sapienza degli indios del Nord America.

di Renato Rosso

In questo tempo di Quaresima il Papa ci ha invitati a compiere un “pellegrinaggio” verso Gesù, sapendo che Lui stesso ci accompagna attraverso il deserto della nostra povertà, sostenendoci e promettendoci la gioia della Resurrezione a una vita ricca.
Lo sguardo di Gesù non cessa di posarsi sugli uomini e sui popoli per curare e guarire le ferite del cuore umano. A nostra volta noi siamo chiamati ad avere “un cuore che vede” il bisogno d’amore ed agisce di conseguenza.
La Quaresima è il tempo opportuno per lasciarci guardare da Dio e da Gesù Cristo e per posare il nostro sguardo sui fratelli.
Iniziamo allora questo “pellegrinaggio” assieme ad alcuni amici che danno l’esempio, dimostrando di essere – o di essere stati – buoni “marciatori”.

di Renato Rosso

Mentre ero in Brasile, passando per Teofilo Otoni ho incontrato uno dei miei insegnanti di liceo. L’ho ritrovato con i capelli bianchi, ma non ancora stanco di lottare. Era assieme ad un gran numero di giovani, alcuni poco più che alfabetizzati, e spiegava il Vangelo, lui, il mio vecchio insegnante di filosofia al liceo di Alba. Mi sono seduto anch’io con loro a prendere lezione come facevo trent’anni fa. Quella sera spiegò le beatitudini e diede anche un compito da fare a casa: bisognava rispondere se è possibile all’uomo, con tutta la sua fragilità, vivere questa pagina del Vangelo. Sono in ritardo nel mandare la risposta e, mentre chiedo scusa al mio professore, condivido con voi questo compito.

Se io oso pensare che è possibile vivere le beatitudini è perché, in primo luogo, Gesù le ha vissute in pienezza e se quando ha perdonato i peccati lo ha fatto come Dio, quando ha vissuto le beatitudini lo ha fatto come uomo. Parafrasando una risposta del Vangelo, potremmo dire che ciò che è impossibile all’uomo da solo, è possibile all’uomo con Dio. Nel mio tentativo di risposta al compito dato, mi fermo alla prima beatitudine, beati i poveri in spirito, che traduco “beati coloro che hanno lo spirito del povero” perché nella misura in cui avranno lo spirito del povero il Regno di Dio entrerà in loro.
Dal punto di vista biblico, ricco è chi crede di essere potente, pensa di avere raggiunto il fine della sua vita perché ha i granai pieni, pone fiducia nelle proprie ricchezze e sostituisce i beni a Dio stesso. I poveri invece sono Gesù inchiodato a una croce e quanti lo seguono. Vivere lo spirito del povero significa diventare come i poveri condividendo ciò che abbiamo. E i nostri beni non sono solo quelli materiali, ma anche salute, istruzione, eredità culturale: solo se metteremo tutto questo a servizio dell’altro con spirito di povero, saremo beati. Se poi è difficile dare il sovrappiù che abbiamo in quanto non conosciamo mai qual è la linea di demarcazione del necessario, è più facile dare ciò che all’altro manca.
E ora racconto una storia sentita da una bambina di 10 anni per sottolineare un altro aspetto delle beatitudini: “Un gruppo di colonizzatori arrivati in Nord America aveva deciso di raggiungere un luogo ad alcune giornate di distanza oltre la grande foresta. Per questa spedizione si fecero accompagnare da alcuni indios che conoscevano la regione. Dopo tre giorni di cammino, con pochi momenti di sosta, gli indios improvvisamente si fermarono. I bianchi dapprima promisero vari tipi di ricompense, poi li minacciarono, ma inutilmente. Alla fine anche i bianchi si rassegnarono a sostare. Tentarono di capire la ragione di quella sosta prolungata e gli indios fecero intendere che bisognava fermarsi per attendere le loro anime: i loro corpi infatti avevano camminato troppo veloci e le anime erano rimaste indietro”.

Oggi molta gente indaffarata che passa di fronte a un monastero si domanda: “perché questi monaci si sono fermati qui, con tanto lavoro che c’è da fare per la giustizia, la pace, i diritti umani?”. Spesso sento amici che dicono: “Viviamo in una società sbagliata, ma che cosa si può fare? Non ci sono alternative, se non continuare a correre anche se abbiamo perso l’anima, ormai il mondo è così”.

È meglio morire con l’anima che vivere senza di essa. Se non ho più un’anima che mi rende umano, se non ho quindi lo spirito del povero, che mi giova? Posso anche vivere vicino ai poveri costruendo scuole, ospedali, fabbriche, distribuire pane e companatico a tutti i poveri del mondo e bruciare la mia vita per loro, ma se faccio questo con spirito di ricco, di chi è potente e si vuole costruire un regno su questa terra, sono solo un potente capace di fare miracoli e spostare le montagne, ma tutto questo non giova a nulla.

Se ho lo spirito del povero che condivide ogni cosa non mi sarà difficile saper accettare la conseguenza di perdere i miei privilegi, saprò sopportare una vita più cristiana e comprendere chi non ce la fa, sarò paziente di fronte ai processi storici che hanno tempi lunghi. Si potrebbe obiettare che se l’entusiasmo ci può anche aiutare ad avere lo spirito del povero per qualche momento eroico, nella vita è difficile perseverare a tempi lunghi. Questo è vero se i poveri non li vediamo, se non li vogliamo incontrare, se non mangiamo, ridiamo, piangiamo con loro.
Spedisco in fretta il compito anche al mio professore, il quale certamente mi darà insufficiente, ma lo rifarò e rifarò tante volte, meditando questa pagina per tutta la vita.

Renato Rosso

 

 

 

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