Non ne posso più…

Pubblicato il 24-01-2013

di Flaminia Morandi

Di stare solo. Nessuno mi cerca. Il telefono è muto.
Se esco, mi ferisce l’allegria degli altri. Mi sembra che nessuno sia solo come me: che tutti abbiano qualcuno con cui parlare, ridere e mangiare un gelato.
Torno a casa; corro al telefono per sentire se ci sono messaggi.
Mi metto a leggere; mi prende sonno.


Accendo la tv; il divertimento finto o vero di quelli che sono lì mi mortifica ancora di più. Mi viene una fame rabbiosa; ma non c'è niente che mi vada davvero. C'è un pensiero che mi sta piantato in mezzo alla strozza come un uovo sodo che non va né su né giù: tutti sono belli, bravi e simpatici; tutti sono stati capaci di fare qualcosa della loro vita; solo io ho sbagliato tutto. Io spazzatura del mondo.

A parte il telefono e la tv, sono parole di Cassiano, uno che di solitudine se ne intendeva perché l'aveva scelta e sperimentata. La solitudine è brutta nel IV secolo come nel XXI, in un deserto o al quindicesimo piano di un condominio ingrigito dall'ossido di carbonio. Sempre la stessa roba. Il brutto della solitudine sono i pensieri, amari, depressi, negativi. Accidiosi. Sant'Antonio, che se n'era andato nel deserto per sfuggire alla fatica e alle noie del mondo, appena s'era ritrovato da solo in una cella era stato accerchiato da animali feroci: i pensieri. Aveva capito allora che se i cristiani del secolo precedente morivano martiri sotto i denti delle fiere, al monaco toccava il martirio quotidiano della lotta corpo a corpo con i propri cattivi pensieri.

Non è cosa che riguarda solo i monaci. Si nasce soli, si muore soli. Tutti siamo chiamati a sperimentare la solitudine e non solo i vecchi, gli ammalati, i poveri. Tutti siamo tormentati dai pensieri insidiosi che sembrano sorgere dal profondo di noi stessi e invece ci assediano da fuori e pretendono di conquistarci. Averci a che fare non è un'impresa semplice: questi pensieri, ma facciamo prima a chiamarli demoni, sono pieni di inventiva e ci conoscono alla perfezione: suggeriscono proprio le cose che abbiamo voglia di fare.

Acchiappare qualsiasi cosa purchessia. Cercarsi degli amici purchessia, una ragazza purchessia, un branco purchessia, un lavoro purchessia, una distrazione purchessia. Sesso purchessia, suprema illusione di fuga dalla solitudine. Eppure, se nella nostra vita c'è una condizione di solitudine o un periodo di solitudine, non è senza significato. Qualcosa ci vuol dire, che noi cerchiamo di non sentire. Se proviamo ad ascoltare senza spaventarci, quella solitudine ci chiede di aspettare, di rimanere dove siamo, di restare fedeli al nostro quotidiano così apparentemente senza senso rispetto al mondo levigato e vincente della pubblicità.

La solitudine è l'invito a un incontro, il più prezioso che si sia dato di fare. Si può dirgli di no e incattivirsi. Ma si può dirgli di sì. E allora cominciano le sorprese. La prima ce la saremmo risparmiata: guardare in faccia la nostra miseria e insufficienza. Ma quando si comincia a convivere col nostro nulla, senza più illusioni sulla nostra presunta grandezza, abbandonati in Dio, ecco che si fa strada in noi il sereno sentimento della pietà, per se stessi e insieme di pietà per gli altri. Chi ha imparato ad avere pazienza con sé, è diventato paziente con gli altri. Chi conosce il proprio cuore non giudica più. Chi ha fatto la fatica di cominciare ad amarsi, sperimenta su di sé la dolce carezza dell'amore di Dio. Chi è solo non è più solo: e ha scordato cos'è la solitudine.


Flaminia Morandi
NP giugno/luglio 2003

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