Dom Luciano si racconta

Pubblicato il 15-02-2012

di Redazione Sermig

Da grande volevo “l’aviatore…”, ma tenni tutto ciò dentro di me. Poi, a poco a poco, la cosa più importante fu per me seguire Cristo.

a cura di Costanzo Donegana e Paulo da Rocha Dias
 

 Dom Luciano, per cominciare ci parli della sua famiglia.
Sono nato a Rio de Janeiro il 5 ottobre del 1930, da una famiglia molto radicata in quella città. Mio padre era tipografo e insegnava, dirigeva una scuola. Collaborò con il giornale “Correio da Manhà” (“Corriere del Mattino” - giornale locale di Rio dell’epoca – n.d.r.), poi fondò una propria tipografia ed il suo lavoro principale furono le arti grafiche. Dette anche lezioni di comunicazione alla PUC (Pontificia Universidade Catòlica – n.d.r.). Mio padre ebbe la felice intuizione di creare il primo supplemento intergrafico in Brasile, che uscì come supplemento in sessanta giornali brasiliani.

All’epoca era una specie di rivista allegata ai vari giornali. Egli si dedicò molto all’insegnamento e all’organizzazione pedagogica perché, mio nonno, Candido Mendes, e un suo fratello avevano fondato, a Rio de Janeiro, l’ “Accademia del Commercio”, una valida iniziativa sociale che offriva lezioni gratuite serali a tutti coloro che lavoravano durante il giorno e che, in tal modo, potevano completare la loro formazione professionale ed anche dedicarsi alla libera professione. Questa scuola si trasformò successivamente in Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e del Diritto, meglio conosciuta come “Università Candido Mendes” dal nome di mio nonno.

E sua madre?
Noi eravamo sette fratelli, cinque maschi e due femmine; nonostante ciò, mia madre dedicava gran parte delle serate alla formazione religiosa degli alunni delle scuole statali. Lo fece per 50 anni. Morì per un tumore al cervello dopo tre interventi chirurgici. Era una persona molto religiosa: ha studiato a Parigi, alla Sorbonne e poi ha frequentato corsi di specializzazione in teologia. Conduceva una vita semplice, seria e caritatevole: Messa e comunione giornaliera, nonostante avesse moltissime faccende da sbrigare e seri problemi di salute. Ricordo che, una volta, andai a visitarla durante la convalescenza dopo uno degli interventi chirurgici. Arrivai a casa all’alba e, senza bussare, entrai in camera. La vidi inginocchiata con le braccia aperte, che recitava il rosario. “Mamma”, le dissi, “per favore riposati”. Lei mi guardò e, quasi scusandosi, mi rispose: “Figlio mio, non sto pregando per me, ma per gli altri”. La mia famiglia però non è solo questa. Oggi è costituita da molte persone che appartengono allo stesso ambito di amicizia e amore. Non solo i confratelli gesuiti, i membri dell’Arcidiocesi di San Paolo e di Mariana, ma anche molti poveri che, in questo momento, ho davanti ai miei occhi con i loro volti sofferenti, vittime di fame e di ingiustizia sociale, legati alla mia vita da infinito affetto.

Come è nata la sua vocazione?
Nel clima di fede e dei valori umani della mia famiglia, la mia vocazione sbocciò molto presto: a sei anni di età. Ricordo che quando mi chiedevano che cosa volevo fare da grande, io rispondevo: “Il prete, ma il prete aviatore”. Questo avvenne il giorno della mia Prima Comunione. Ma tenni tutto ciò dentro di me, perché credevo fosse una cosa che non doveva essere detta agli altri. Questo aspetto dell’aviatore era una specie di eredità di mio zio di nome Luciano, che morì nella prima Guerra Mondiale nell’esercito brasiliano (che combatteva come alleato della Francia).
A poco a poco, questo desiderio dette vita ad una volontà superiore, non solo di essere prete ma di seguire Gesù Cristo. L’aspetto sacerdotale per me è antico ma non è quello primario: la cosa più importante fu per me la persona di Cristo e soprattutto il fascino che Egli esercita e sempre esercitò nella mia vita.

Dove ha studiato?
Ho frequentato le scuole elementari e medie presso il collegio Sant’Ignazio a Rio de Janeiro dai gesuiti, dove è nato un legame particolare con la Compagnia di Gesù, anche perché mio padre è stato alunno del collegio (il primo allievo iscritto). La formazione spirituale ricevuta mi orientava a continuare gli studi per poi entrare nel noviziato. Stavo maturando tutto questo, ma con molta discrezione, tant’è che pochissime persone lo percepirono. A meno di 17 anni, nel 1947, andai a Nova Friburgo (vicino a Rio de Janeiro – n.d.r.), dove c’era la casa di formazione dei gesuiti. Frequentai il noviziato, poi gli studi di retorica e filosofia a cui seguirono due anni di stage, durante i quali insegnai nel seminario minore dei gesuiti, situato nella stessa città: in totale, nove anni. Poi fui mandato in Italia, a Roma, dove rimasi dal 1955 al 1958 (l’anno in cui fui ordinato sacerdote) per studiare teologia alla Gregoriana. Seguì un anno di formazione spirituale a Firenze, chiamata la “terza prova gesuita”. Quando finii, pensai di tornare in Brasile ma mi invitarono ad aiutare gli studenti del Pio Collegio Brasiliano; tornai a Roma, dove rimasi fino al 1965. In questo periodo frequentai un corso di filosofia e ottenni due anni di tempo per redigere la tesi.

Lei ha una vera passione per la filosofia. Segnò la sua formazione culturale?
Senza dubbio. La filosofia, oltre ad esigere una certa ascési intellettuale e un continuo esercizio riflessivo, mi ha permesso di conoscere un po’ di più i grandi sistemi, i grandi autori e nello stesso tempo percepire e comprendere la famosa angoscia di fine secolo, e cioè tutta questa frenetica ricerca di una soluzione sul perché della vita, dell’esistenza umana, molto sentita dalle correnti filosofiche della fine del secolo XIX e dell’inizio del secolo XX. Tutto ciò suscitò in me una serie di domande teologiche profonde che non erano altro, anche per me, che la ricerca di una risposta sul perché dell’esistenza umana e sul senso della vita stessa.
La filosofia ha aperto molti orizzonti, perché entra in contatto non solo con dei sistemi, ma con delle esistenze che non sempre sono state illuminate dalla luce della fede. Questo dimostra anche la forza dell’intelligenza umana in questo cammino, alla ricerca della verità e nello scontro tra le varie idee, i vari sistemi. Ancora oggi continuo ad occuparmene, perché la continua ricerca non solo della verità, ma del senso profondo della vita umana, è il percorso dell’intera umanità. La filosofia avrà sempre una parte importante nel grande sapere umano.
Mi ha aiutato anche il fatto di occuparmi di teologia e di poter fare così una lettura illuminata di alcuni temi di filosofia, che mi sono stati chiariti dalla teologia. Ad esempio, i secoli medioevali proiettano una grande luce sulla questione della conoscenza – che oggi è poco approfondita – specialmente sull’affermazione di San Tommaso d’Aquino che non è con la sola intelligenza che si conosce l’uomo. Ho approfondito quest’affermazione nella tesi di laurea, “L’imperfezione dell’intelligenza umana secondo San Tommaso”, mettendo in evidenza che l’amore ha una grande influenza nel processo conoscitivo, come appare chiaro nel modo in cui una madre conosce il figlio. Questa è la dimensione affettiva dell’atto conoscitivo. Ne è un esempio anche l’apertura del misticismo ad una conoscenza che non si fa solo attraverso un’azione intellettuale, ma grazie alla presenza interna di Dio che si rivela alla persona umana.

Ma poi tornò in Brasile…
A Roma feci anche il corso di teologia spirituale perché avevo la prospettiva, tornando in Brasile, di lavorare nella formazione, sia nell’insegnamento filosofico sia nell’ambito spirituale. Tornato in Brasile, insegnai per quasi dieci anni nell’Università di Filosofia dei gesuiti a San Paolo e, contemporaneamente, fui incaricato della formazione dei sacerdoti gesuiti. Fu proprio lì che ebbi l’opportunità di vivere un poco con Dom Helder Càmara a Recife (città del Nord-Est del Brasile – n.d.r.), perché la formazione dei preti gesuiti si svolgeva prevalentemente in quella città. Tutto questo mi avvicinò moltissimo ai Padri della Chiesa, perché tra questi gesuiti esisteva una crescente tensione a dare “spessore” spirituale all’esercizio del proprio ministero sacerdotale.
In quell’epoca (1974/75) collaborai con il CRB di San Paolo (Conferencia dos Religiosos do Brasil – n.d.r.) e con la Congregazione Generale dei gesuiti, dove svolsi le mansioni di segretario. Fu un’esperienza molto importante, sia per la presenza di padre Arrupe sia per il dibattito sui problemi del mondo intero, in un momento molto difficile per la Chiesa. In quel periodo, infatti, in Brasile eravamo sotto un Governo militare e una delle mie mansioni era quella di aiutare i cappellani universitari nelle varie facoltà. Fu un’epoca molto intensa, caratterizzata, purtroppo, da perquisizioni, arbitrarietà, ingiustizie sociali, torture. In quel clima radicale del Governo militare (progressivamente superato) nacque nella Chiesa la volontà di approfondire il Concilio Vaticano II, con la Conferenza di Medellìn (Colombia) e poi di Puebla (Messico).

Cosa significa, per Lei, essere gesuita?
Prima di tutto, un grande amore per la Chiesa, la volontà di servire nella Chiesa, specialmente seguendo l’esempio mistico/spirituale di Sant’Ignazio di Loiola, nell’ambito di una totale disponibilità.
In secondo luogo, la forte spiritualità della preghiera del cammino ignaziano: gli esercizi spirituali, i ritiri e, soprattutto, il discernimento che si fa nella preghiera sulle situazioni personali e le vie della storia. Una vocazione contemplativa, ma rivolta anche alla comprensione dei segni dei tempi.
In terzo luogo, la missione. La vocazione del gesuita non è quella di parroco o quella di aprire un collegio, ma la disponibilità a servire andando in qualsiasi posto sia necessario. Per se stessi i gesuiti non devono tenere nulla. Essi devono essere disponibili. Di questo vedo una certa consequenzialità nella mia vita: quando stavo a Roma pensavo di lavorare in Africa, in Madagascar e manifestai questa mia inclinazione. Poi, tornato in Brasile, mi proposi per le missioni in Mato Grosso che, in quell’epoca, si trovavano in una situazione alquanto difficile. Ma volevo anche andare in Giappone, tanto che studiai un po’ il giapponese. La dimensione missionaria è sempre stata molto forte in me.

Intervista a cura di
Costanzo Donegana e Paulo da Rocha Dias
per Mundo e Missão (mensile del Pime in lingua portoghese)
traduzione a cura di Elio Martinez

 

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