Dom Luciano: innamorato di Cristo e dei poveri

Pubblicato il 15-02-2012

di Redazione Sermig

Intervistare Dom Luciano Mendes de Almeida è facile e difficile allo stesso tempo per la sua estrema (persino esagerata) disponibilità. Difficile perché, quando si parla di argomenti inerenti le sue virtù e i suoi meriti, quasi nulla esce dalla sua bocca. Questa intervista non ha un filo conduttore ma è un tentativo di conoscere qualcosa della vita di Dom Luciano, di rilevare la ricchezza della sua spiritualità, della sua riflessione della sua passione per la Chiesa e per l’uomo, soprattutto il povero. Ma quello che ne deriva è solo un accenno che, forse, nasconde la realtà più profonda. Al lettore non rimarrà che captare nelle stelle…

a cura di Costanzo Donegana e Paulo da Rocha Dias

Cominciamo da Dom Luciano vescovo...
Nel 1974/75 collaborai con la Congregazione Generale dei gesuiti, dove svolsi le mansioni di segretario, un’esperienza molto importante, sia per la presenza di padre Arrupe sia per il dibattito sui problemi del mondo intero, in un momento molto difficile per la Chiesa e, in particolare, per la Chiesa brasiliana. Qualche mese dopo la fine dell’impegno presso la Congregazione Generale, Dom Paulo Evaristo Arns convocò più ausiliari per sceglierne uno per l’arcidiocesi di San Paolo. Fui scelto io, nel febbraio 1976. L’ordinazione avvenne il 2 maggio. In quell’occasione Dom Paulo disse una frase che segnò la mia vita. Io avevo studiato molto, mi ero laureato, ero professore, sacerdote, formatore e pregavo; ma, secondo lui, mi mancava una cosa importante: il popolo di Dio. La vita del ministero episcopale mi avrebbe dato la presenza del popolo e l’amore per il popolo. Lavorai in periferia, a Belém. Fu un’epoca molto felice di azione pastorale, soprattutto per la possibilità di vivere la fraternità episcopale con Dom Paulo e gli altri ausiliari. Ci aiutavamo, ci stimavamo, ci incontravamo mantenendo un vincolo molto saldo di fraternità, cosa che mi ha aiutato per tutta la vita. Per quanto concerne il lavoro realizzato, sinteticamente posso dire che mi occupavo non solo di una specifica area geografica, che era la Regione Est della città, ma anche di altri settori trasversali alle diverse zone.  Fu lì che nacque la “Pastorale del Minore”, con sorella Maria do Rosario Cintra, padre Jùlio Lancellotti e dona Ruth Pistori. Io portavo un’esperienza di lavoro acquisita in un carcere minorile di Roma, durante il periodo in cui studiavo teologia, che mi ha aiutato molto. Cambiai il mio modo di pregare, il senso della dedizione, ma soprattutto compresi che il sacerdote è ordinato tale, prima di qualsiasi altra cosa, per essere a disposizione di tutti coloro che necessitano maggiormente della presenza di Dio, di scoprirlo come Padre nonostante abbiano vissuto le più negative esperienze di vita, come quei giovani i cui padri erano alcolizzati, picchiavano loro e le loro mogli e li mandavano a rubare.

Lei ha lavorato molto anche fuori dal Brasile?
La dimensione sud-americana della Chiesa è nata a Medellìn, si è sviluppata nella sua preparazione a Puebla e si è maggiormente definita nel CELAM (Consejo Episcopal Latinoamericano). Anche il Brasile si è aperto a favore di questa convivenza tra le Chiese dell’America latina e, negli ultimi anni, di tutta l’America. Per quanto mi riguarda, fu a Puebla che entrai in questa nuova dimensione, come membro della commissione di coordinamento composta da cinque rappresentanti provenienti dalle varie parti del continente. Fu un’esperienza molto importante, un nuovo lavoro, esigente. Negli anni ’90 fui vice-presidente del CELAM e nella Conferenza di Santo Domingo fui nominato presidente della commissione di redazione. Lavorai soprattutto nella seconda parte del Documento finale (promozione umana) e nella stesura delle Linee Pastorali Prioritarie e della preghiera.

Lei è conosciuto soprattutto come presidente della CNBB (Conferència Nacional dos Bispos do Brasil).
Nell’Assemblea della CNBB del 1979 fui eletto segretario e rimasi come tale otto anni. Poi fui nominato presidente per altri otto. Questo lasso di tempo abbraccia un periodo significativo della storia del Brasile, reso difficile dalla dura persecuzione dei militari contro la Chiesa. In quest’epoca iniziarono anche a delinearsi con più coscienza e determinazione le grandi sfide del nostro Paese: il rapido impoverimento del popolo, il problema della popolazione indigena, quello della cultura afro-brasiliana e, di conseguenza, tutte le varie questioni inerenti la giustizia sociale, la mancanza di cultura e anche una progressiva apertura ecologica.
Tra i vari fattori che caratterizzarono questo periodo della CNBB, in primo luogo va evidenziata una grande unione tra i vescovi e tra questi ultimi e i preti, i religiosi e i laici, all’interno della Chiesa brasiliana. Abbiamo sempre tenuto riunioni tra i responsabili delle varie aree di vita del popolo di Dio. Questa positiva esperienza di unione, comunione e partecipazione permise di effettuare un’azione congiunta della Chiesa nei confronti del Governo militare.

Una Chiesa che fu anche perseguitata…
Sì, un secondo aspetto che va appunto sottolineato è che la Chiesa ha sofferto incomprensioni e persecuzione. Basta ricordare padre Ezequiel Ramin, Josimo, Joào Bosco Bernier ecc. assurti a “simbolo” in un’epoca di forte ingiustizia sociale verso i piccoli proprietari, i lavoratori, gli indigeni; epoca di disuguaglianza economica fortissima, di totale assenza della pubblica amministrazione nei luoghi più periferici.
D’altro canto ci fu un’apertura maggiore nella programmazione pastorale e nelle direttive generali, nonché una nuova vivacità nell’ambito della vita comunitaria.  È bene richiamare l’attenzione su quest’ultimo aspetto, perché nei mezzi di comunicazione si parla più degli aspetti esteriori del problema, ma occorre anche evidenziare quanto la Chiesa si sia impegnata sia negli orientamenti di tipo morale sia nell’affermazione dei principi per promuovere il bene comune.
È importante capire che la storia, in ogni epoca, ha sempre proposto delle sfide e anche la nostra generazione non è esente da questo. Non credo che ci dobbiamo intimorire ma, al contrario, dobbiamo affrontarle, se non tutte per lo meno qualcuna. Noi abbiamo visto il passaggio di un Governo militare, il recupero della libertà di espressione, di voto, ma non siamo ancora arrivati ad una completa esperienza di democrazia partecipativa, all’elaborazione di un coinvolgente progetto politico che tratti anche delle grandi questioni come quelle della terra, delle case, della salute e quant’altro ancora.
È sempre più chiaro che il Brasile non è un’isola, che deve rendere conto solo a se stessa delle proprie azioni, ma un Paese che è entrato in una situazione di dipendenza nei confronti dei grandi mercati internazionali, il che ha sbilanciato di molto l’economia nazionale. Quali sono le sfide per l’evangelizzazione in Brasile?
La Chiesa dovette impegnarsi da subito nell’affrontare la situazione di ingiustizia sociale, non solo considerandola causa dell’asfissia della libertà, come all’epoca della dittatura, ma affrontando soprattutto la sfida che l’esercizio quotidiano di “essere cittadino” pone alla fede. Quest’ultima, infatti, non può essere assente in tale processo e, d’altro lato, può offrire validi motivi per creare le condizioni di una vita “degna” per la maggior parte della popolazione. La Chiesa brasiliana fece tutto ciò in chiave non di priorità politica ma di coerenza evangelica che, ovviamente, arriva fino al livello politico.

Quali altre sfide?
Un’altra sfida è quella che concerne la posizione etica della Chiesa di fronte ai grandi dubbi e angustie generate dal progresso della scienza e dall’ingegneria scientifica, in tutto ciò che concerne la vita umana. Da parte della Chiesa c’è uno studio serio in proposito.
Dal punto di vista della sfida religiosa, in Brasile, che era un Paese con un’altissima percentuale di cattolici, si registrano ultimamente molti gruppi religiosi, non solo indipendenti nel loro pluralismo ma anche molto differenti nella loro collocazione religiosa. Tutto ciò ci ha portato, per un reale esercizio dell’evangelizzazione nell’ambito della Chiesa cattolica, ad un serio confronto con le altre Chiese, che ha evidenziato con chiarezza come siamo lontani dal giorno dell’unità e come abbiamo bisogno di un dialogo rispettoso e produttivo per risolvere i problemi sorti nel correre degli anni. Le divergenze potranno essere superate solo con una coinvolgente condotta ecumenica.
Gli anni della guerra, che coinvolse il mondo intero, furono anni di grande riflessione. Le persone intristite, abbattute, afflitte, molte volte costrette a condurre una vita isolata, chiuse, senza alcuna apertura verso tutto ciò che il progresso poteva offrire loro, attraversarono un periodo di riflessione molto profonda. Anche nel campo della fede. Quando la guerra finì e, a poco a poco, si aprirono nuovi orizzonti, nuovi ambiti, nuovi spazi come, per esempio, la maggior facilità di accedere all’ambito tecnologico, più mobilità umana sotto forma di turismo, i campionati di calcio internazionali…. buona parte del tempo che era dedicato alla lettura e alla riflessione è stato usato in maniera dispersiva, e lo spazio lasciato vuoto è stato occupato da attività superficiali, prive di valori e di contenuti.
Il periodo della dittatura militare in Brasile ha ridotto fortemente il fiorire dei laici cattolici nella società e nella cultura. Se non avessimo vissuto il periodo militare ci sarebbero state molte più figure di leaders, sia in politica che nel campo culturale, e io credo che il Paese avrebbe preso un’altra direzione. Inoltre il Brasile ha dovuto impegnarsi molto, sia nel processo di democratizzazione post-dittatura, sia nell’affrontare il problema dell’ingiustizia sociale e, forse, ha trascurato o ha sviscerato poco o niente il grande problema del senso della vita, del dialogo ecumenico, delle grandi riflessioni sulle teorie scientifiche. Pare che il tempo della riflessione sia finito: è molto difficile discutere, organizzare un forum con una buona preparazione di base. Tutti si interessano ma le soluzioni non sono così interessanti e brillanti. Anche la vita universitaria in Brasile è più votata allo sviluppo tecnologico piuttosto che ai grandi temi del sapere.
Abbiamo tutto un campo che deve essere recuperato; forse, mancano persone con un’ampia visione di sapienza, di integrazione, di interdisciplinarietà. Questo modo di “pensare all’uomo” al tempo di Alceu Amoroso Lima (scrittore e filosofo cattolico, morto nel 1983 - n.d.r.), per esempio, era molto richiesto perché era considerato una sapienza che integrava la coscienza del cittadino e l’appartenenza a tutto quello che era illuminato dalla fede, costituendo l’apertura creativa per il futuro.
Questo modo di pensare è diventato sempre più raro e forse dobbiamo imputarne la responsabilità anche al sistema educativo, nonché a certe priorità che, a volte, ricerchiamo nelle comunità cattoliche, senza riservarci uno spazio sufficientemente ampio da dedicare allo studio, all’analisi, all’approfondimento, in altre parole alla capacità della persona di “situarsi”.
Non c’è, nel Brasile di oggi, nessuno che abbia la capacità e la competenza di Alceu Amoroso Lima, o meglio, la sua presenza e la sua influenza. Ci sono però nuove figure che stanno nascendo, ci sono persone che si stanno affermando, ma tale processo è molto lento. Forse quest’epoca non è altro che la preparazione di una nuova fase in cui più persone saranno leaders. È pressoché impossibile, oggi, che una sola persona racchiuda in sé tutto il sapere ed è ancor più difficile armonizzare sistemi differenti, menti diverse, ma proprio in ciò sta il cammino dell’umanità.

Qual’è il senso della missione oltre frontiera per la Chiesa del Brasile?
Concepisco la missione come un atto d’amore. Alla luce della teologia, tutti sappiamo che Dio pone la Provvidenza su tutti gli esseri umani e a tutti offre le condizioni per condurre una vita piena, fino alla salvezza finale; questa salvezza si ottiene attraverso Cristo e sempre con la collaborazione della Chiesa, che prega e si offre di aiutare tutti. È una specifica volontà di Cristo quella di offrire agli altri ciò che abbiamo ricevuto e che ci è stato donato, così come dovremmo capire quello che Dio ci comunica attraverso gli altri.
Quindi, oggi, l’azione missionaria è un atto d’amore perché è un atto di condivisione, di donazione gratuita dei valori più alti che noi possediamo: il sapere, il significato della vita umana, il senso della rivelazione divina e tutto ciò che questo significa. La missione non è fatta di proselitismo ma di condivisione: si tratta di offrire all’altro, in tutta libertà, ciò che noi possediamo.
La Chiesa è una comunità missionaria, una comunione sempre aperta affinché altri possano parteciparvi, una comunione dinamica affinché possa offrire agli altri ciò che questi non hanno. E tutto ciò nell’ambito della comprensione del dialogo interreligioso, con il suo punto di riferimento nell’infinita misericordia di Dio che dispone per gli uomini sentieri non sempre noti.

Che posto occupa l’inculturazione in questa visione?
Anche l’inculturazione è un atto d’amore. Condividere la vita, anzi, identificarsi con gli altri per trasmettere la Parola è un atto d’amore. È l’amore che crea la vicinanza: per essere come gli altri il missionario deve imparare a vivere accettando di cambiare il proprio modo di fare, di essere, le proprie abitudini, le proprie agiatezze. Chi si identifica con un altro, gli può dire quanto gli vuole bene, quanto desidera comunicargli il messaggio che ha in serbo da parte di Gesù.
La condivisione che richiede più impegno è quella con i poveri, emblema dell’uguaglianza con tutti gli uomini. Se riesco ad identificarmi con coloro che hanno più necessità di me, significa che io, se fosse necessario, mi potrei identificare anche con gli altri.
Ciò include anche il rispetto che è dovuto ad ogni essere umano, sia nel dialogo interreligioso ed ecumenico, sia nella stima per il modo con cui il nostro popolo vive la propria fede nelle sue varie forme ed espressioni, che devono essere sempre più comprese ed accettate nei loro valori profondi.
È stata questa la fede che mi ha conquistato durante la visita alle comunità dell’arcidiocesi di Mariana. Vorrei evidenziare la capacità che il nostro popolo ha di guardare il Cristo crocefisso e comprendere non tanto la forza della sofferenza quanto la consegna della vita, il dono di se stesso all’altro, che è una grande lezione per l’intera umanità. La stessa cosa vale per la devozione mariana, in particolare per il ruolo che essa ha nella comprensione del cammino di Dio per l’umanità, della tenerezza, della premura di Dio, dell’unione della famiglia.

Intervista a cura di Costanzo Donegana e Paulo da Rocha Dias per Mundo e Missão
traduzione a cura di Elio Martinez

 

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