L'EPISODIO DEI DISCEPOLI DI EMMAUS (2/2)

Pubblicato il 10-11-2011

di Giuseppe Pollano

Dio continua a cercarci anche quando abbiamo smesso di sperare e di credere.

di Giuseppe Pollano

Tutte le volte che abbiamo cercato di credere “guardando”, è probabile che ce ne siamo venuti via con minor fede. Quando si guarda troppo una sofferenza, si finisce di dubitare di Dio o si va via magari tristi, se l’occhio non è abituato a guardare di più colui che non si vede con gli occhi, perché lo sguardo di fede abbraccia tutto, capisce tutto, consola tutto e supera tutto. Il cristiano comincia a essere cristiano quando crede a sufficienza per capire che le cose che si vedono, e non solo le sofferenze, sono secondo la logica di Cristo.
la tensione della fede: dal visibile all'invisibile

Dopo la frazione del pane i loro occhi si aprirono ed il risorto sparì: è un insegnamento tipico di questa pagina di Luca da mai dimenticare, per potersi fidare della fede che non vede e lasciare che Dio la purifichi: pregavi con gioia, ora sei un deserto, credi forse di meno per questo? I santi hanno tutti necessariamente percorso, in un modo o nell’altro, questa strada del credere Colui che non vedevano più. È bella, è da forti questa strada. Se tutto crolla appena manca la consolazione o la verifica che Dio è buono, allora il nostro non era cristianesimo, era una religione che si appoggiava a Gesù Cristo, un certo tentativo di mettersi in rapporto con Dio che non seguiva la via giusta: “I loro occhi si aprirono, ed egli sparì”.
Roy de Maistre, Cena in Emmaus
Rimasero forse delusi? Questa volta non più. Anzi, il fatto che egli fosse sparito non li lasciò in una situazione di disagio, come si può dedurre da quello che ci dice Luca che adopera, a proposito del fatto che essi si “alzarono subito e se ne andarono di nuovo a Gerusalemme”, il tipico verbo della Bibbia per descrivere la resurrezione: anastasis, la resurrezione. Si alzarono è come dire risorsero, sentirono in loro la forza della resurrezione comunicata dal Risorto e si sentirono finalmente vivi. Che differenza da quei due che mezz’ora prima erano tristi, anzi, Luca usa un vocabolo più forte, tetri. Ecco, quelli che erano come morti ora risorgono, perché hanno visto, perché sanno che egli c’è.


la condivisione della propria gioia per far ardere il cuore

Il cammino dei due diventa ora il viaggio di ritorno: non si può più stare ad Emmaus, la ribellione che avevano prima diventa assurda. Non ha senso essere dominati dalla tristezza e dalla delusione quando il Signore c’è. I cristiani devono essere in grado di avere più degli altri capacità di soffrire, perché hanno più corde nel loro cuore, più sensibilità: più un cuore è forte, ricco, santo, e più soffre, ma non è mai abbattuto dalla sofferenza; appunto perché è sostenuto dal Risorto.

Succedono due emblematiche situazioni quando questi due discepoli corrono da Emmaus a Gerusalemme. Intanto trovano il gruppo che a sua volta ha visto Gesù, e poi a loro notizia si condivide e si fonde con quella degli altri. Noi troviamo la gioia di Gesù risorto in mezzo a noi quando tutti, parlando o pregando o guardandoci in faccia o facendo altre cose, siamo sostenuti dalla sola convinzione che Gesù c’è, è vivo, è contemporaneo, è qui a fare tutto con noi. Questa è l’intima gioia che riempie la consapevolezza dei veri credenti. Infatti la gioia di Gesù risorto non è una gioia del tutto privata e fa nascere il bisogno di comunicarla per rendere felici gli altri.
Ecco allora che Gesù ci consegna l’incarico di essere capaci di far risorgere qualcun altro. È una caratteristica del cristiano mettersi a camminare con i delusi, con chi sta scendendo da una qualsiasi Gerusalemme, o forse non c’è mai neppure salito, e diventare comunicatore e portatore di resurrezione. Gesù non ha fatto altro, dopo essere risorto. È andato in cerca di chi non sperava e non credeva più. Non è un caso che i vangeli non ci dicano nulla dell’incontro di Cristo con la sua mamma Maria: non ce n’era bisogno, ella credeva.
Il ruolo dei cristiani

I cristiani non si soffermano sulla delusione, non fanno della propria storia soltanto la storia delle proprie sofferenze, ma piuttosto, a poco a poco, la storia delle sofferenze degli altri. Hanno voglia di entrare nel cammino degli altri quando sono delusi, quando sono tristi in volto, quando appunto, umanamente parlando, nessuno ci entrerebbe. Allora occorre fidarsi di Dio che, al di là delle nostre capacità, sicuramente minime rispetto alla potenza di Dio, ci rende abilitati ad avere una potenza che fa ardere il cuore perché possiamo riuscire a condurre lo sguardo di coloro che accompagnamo molto al di là di noi, fino al mistero di Dio.

Oggi le persone radicalmente deluse sono tutte quelle che non hanno Dio, e il Dio di Gesù Cristo; e quelle che hanno Dio, ma quello con la ‘d’ minuscola, si preparano alla delusione. Diventa perciò compito dei cristiani farsi esperti nel conoscere il cuore degli altri, con semplicità, ma con l’intuizione della carità, non solo nel caso preciso in cui uno è dichiaratamente bisognoso, ma nella vita di tutti i giorni. Esperti quindi a cogliere una delusione in famiglia, di chi ha voltato le spalle a tante cose in cui fino ad ieri credeva,... Questo “fiuto da santi” non è ordinario, ma bisognerebbe non passare mai una giornata senza essere riusciti in qualche modo a cogliere, con intuizione data dallo Spirito Santo, un momento di amarezza di uno che sta camminando giù, verso Emmaus. Il cristiano queste occasioni le ha abbondantemente da Dio: se non le troviamo, è perché siamo un po’ egoisti, un poco insensibili, indaffarati nelle nostre cose. Presi da una cultura efficientista, ci sembra sempre che ci sia altro da preporre. Non è così. La lezione che ci dà Gesù nell’episodio dei discepoli di Emmaus è straordinaria: ci sono dei morti da far risorgere, e tocca a te: nel modo più semplice. Accostati ed ascoltali.

Luca presenta i due discepoli che, sulla loro delusione, sapevano solo più parlare, parlare, parlare... Insomma, un dramma. Lasciate che gli altri vi facciano cascare addosso un diluvio di parole, e sappiate tacere e camminare con loro. Non si sa se per un miglio o sessanta miglia, lo sa Dio. Viene il momento in cui tocca a voi parlare e dire: “Guardate che c’è senso”. Abbiate il coraggio di dire che c’è senso in tutto, senza mostrarvi scandalizzati dalle cose che accadono. Non è il male la potenza che regge il mondo. C’è senso in tutto. C’è un senso che va oltre Auschwitz, per intenderci, con tutto quello che questa parola emblematicamente dice.
Chiediamoci se ci crediamo, se questa è la convinzione che facciamo maturate davanti al silenzio del tabernacolo, davanti alla croce, dinanzi ai misteri della fede. E quando venisse il sospetto che questo senso non ci sia, lasciate lì tutto, non scandalizzatevi di voi, andate da Dio e state fermi davanti a questo sole sapienziale fino a quando non vi avrà riconfortato e vi avrà fatto sentire che il senso c’è, anche se non lo si capisce in tutto e per tutto. I santi sono stati gli unici a non dimenticare mai che “c’era senso”, i santi non ne hanno mai dubitato.

Giuseppe Pollano
tratto da un incontro all’Arsenale della Pace
testo non rivisto dall'autore
Vedi anche:
L'EPISODIO DEI DISCEPOLI DI EMMAUS (1/2)

Vedi il focus:
Mons. Giuseppe Pollano - riflessioni inedite per la Fraternità del Sermig

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