Il vangelo di Marco (5/21)

Pubblicato il 27-09-2012

di p. Mauro Laconi

di p. Mauro Laconi, op - Mc 1,14–45: parola autorevole ed efficacie (2/2).

Cristoforo de Predis, Gesù sana il lebbroso4) il lebbroso

Questo episodio può essere considerato di transizione tra le prime scene (dove non vi è contrasto, non vi sono scontri, contrapposizioni, resistenze) ed il resto del vangelo, improntato a una forte drammaticità che andrà accentuandosi in un crescendo, sino a culminare sulla croce.
La parola efficace di Gesù nel primo capitolo non trova resistenza, e gli atti che compie non trovano contrasti o critiche, anche se egli fa le stesse cose che provocheranno poi dissenso o scandalo nei capitoli successivi (liberazione dell’indemoniato e guarigione della suocera di Pietro in un giorno di sabato, insegnamento innovativo, trasgressione della Legge nel toccare il lebbroso).

Nell’episodio del lebbroso vi è già drammaticità, tensione, e sono presenti dei contrasti, insiti nello stesso comportamento di Gesù e nell’atteggiamento assunto da Marco nel descrivere quanto accaduto. Anche nell’episodio del lebbroso la parola di Gesù è liberatrice, efficace, vittoriosa.
Il lebbroso dice: “se vuoi, puoi mondarmi” (a volte la traduzione non è fedele, e suona “guarirmi”). Il lebbroso era immondo per gli ebrei, e per questo motivo questo episodio finale richiama quello iniziale del primo miracolo di Gesù che guarisce l’indemoniato nella sinagoga dallo spirito immondo. Inoltre, tra la lebbra e la morte c’era un parallelo, una correlazione strettissima. Il lebbroso era un vivente che stava vivendo la propria morte, il suo corpo andava in putrefazione, la putrefazione del sepolcro.
Guarire un lebbroso era possibile soltanto a Dio, perché soltanto Dio può ridare la vita, e guarire un lebbroso vuol dire ridare la vita a un morto. Il lebbroso si appella a Gesù come a chi ha una autorità divina, e Gesù che guarisce è Dio che si muove, agisce tra gli uomini.

Icona della guarigione del lebbrosoVediamo ora una contraddizione nell’atteggiamento di Gesù, mostrata nel comportamento descritto dal versetto 41 e in quello 43. Nel versetto 41 Gesù è tutto pieno di compassione, toccato dalla vista di quell’uomo malato. Nel versetto 43, la traduzione letterale del testo greco suona: “e adiratosi, lo cacciò via”. Quindi prima Gesù è tutto compassionevole, pietoso e amorevole, poi è adirato e severo, caccia via il lebbroso. Al di là del contrasto, notiamo il comportamento veramente e totalmente umano di Gesù, anche mentre sta compiendo un gesto divino. Solo in Marco Gesù ha delle reazioni, delle emozioni, un comportamento come ognuno di noi: si commuove, si turba, si adira. Nei vangeli successivi l’umanità è meno sottolineata per far risaltare maggiormente la divinità del Cristo.

Un’altra contraddizione nel comportamento di Gesù sta nel comando al lebbroso di rispettare le regole della Legge, presentandosi al sacerdote per la constatazione della guarigione ed il sacrificio, e nell’infrangere poi egli stesso quelle regole, toccando un immondo.
Un altro contrasto apparente è contenuto nel versetto 44, dove Gesù ordina al lebbroso di non dir nulla a nessuno, ma gli ordina pure di presentarsi al sacerdote presentando l’offerta prevista, “a testimonianza per loro”. È vero, si può intendere che il lebbroso deve soltanto presentare l’offerta, ma se i sacerdoti lo interrogheranno?

In ogni caso, persino in questo capitolo dedicato alla parola efficace di Gesù, alla quale nessuno può resistere, l’ordine di Gesù di tacere non trova ascolto. In effetti il lebbroso, lungi dal rispettare l’ordine di Gesù, va e, come un banditore, proclama e divulga il miracolo. E Marco sembra compiacersi di questa disobbedienza che provoca una notorietà tale da far sì che non sia più Gesù a dover cercare la gente, in quanto ora le folle accorrono a lui da ogni parte.
Questo tema, dell’ordine dato da Gesù alle persone che guarisce di non proclamare i suoi miracoli, la cura che pone nell’imporre ai demoni che scaccia di tacere sulla sua identità divina, appare in questo capitolo per la prima volta, ma ricorrerà insistentemente nel vangelo di Marco.

La fede in Gesù non deve essere “miracolistica”: non si deve credere solo perché si è superficialmente impressionati da fatti prodigiosi. Si deve giungere alla fede vera, quella che esprime il centurione sotto la croce, dopo aver assistito alla passione. Gesù è un Messia venuto per servire, è il Servo di Jahvè, trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità, che ci ha salvati con il suo castigo, guariti con le sue piaghe. L’attività messianica di Gesù non si completa che con il Calvario.


Michele Montalto, La chiamata5) la fede

Marco con questo suo brano vuole che noi ci poniamo gli stessi interrogativi su Gesù che si posero quanti erano presenti nella sinagoga di Cafarnao, per comprendere meglio, per avanzare nel nostro cammino di fede. Vedremo anzi che il vangelo di Marco è caratterizzato dalle domande, mentre il vangelo di Matteo tende a dare risposte, a spiegare tutto.
È il comportamento stesso di Gesù e di quelli a cui egli si rivolge che ci induce a porci delle domande nel tentativo di arrivare ad una spiegazione soddisfacente. Prendiamo ad esempio la chiamata dei primi quattro discepoli. Gesù era per essi uno sconosciuto, non avevano ancora mai ascoltato la sua predicazione, né avevano assistito ad alcun suo miracolo. Eppure, alla sua chiamata, abbandonano istantaneamente tutto e lo seguono. Perché?
Luca, per chiarire l’adesione alla chiamata, introduce l’episodio della pesca miracolosa, e Matteo fa seguire alla chiamata l’insegnamento. Ma Marco vuole invece che noi ci interroghiamo, che ci poniamo di fronte al mistero, ad un mistero che continua fino alla morte di Gesù, dove la sua invocazione al Padre come “abbandonato” ci pone di fronte ad un enorme interrogativo.

Credere in Gesù, in Dio, non significa acquistare d’un tratto qualcosa (la fede) di compiuto, perfetto, avere subito una risposta a tutto, ma significa invece percorrere poco a poco, faticosamente, un cammino di fede e la fede è alimentata dalla nostra continua adesione, più che da spiegazioni razionali.
Come i primi quattro discepoli seguono Gesù senza alcun “perché”, senza una spiegazione razionale che motivi l’adesione alla chiamata, così è per tutti noi. Ognuno di noi incontra il Cristo che lo chiama e deve lasciarsi “conquistare” da lui, perché non vi sono sul piano puramente razionale motivi tali da indurci all’adesione, così come non vi sono validi motivi razionali per un rifiuto. Se cerchiamo di trovare in noi delle risposte razionali continueremo a porci all’infinito delle domande oppure, non trovando risposte adeguate, finiremo anche noi, come i farisei, per scandalizzarci.

Certo la nostra fede non è irrazionale, e la nostra adesione non esclude né un ragionamento, né dei motivi di credibilità. Ma l’adesione stessa non è riconducibile a puri motivi razionali, e la chiamata dei discepoli può essere considerata il primo miracolo di Gesù, che si perpetua nel tempo, ogni qual volta c’è una risposta positiva alla parola dell’evangelista, del missionario, e nasce una nuova comunità, nuovi credenti.
Gesù si avvicina a noi e ci chiama. È il mistero di Dio che ci viene incontro, e di fronte a questo mistero non dobbiamo cercare spiegazioni, ma arrenderci.

Dio può cambiare radicalmente la nostra esistenza, la nostra storia, come ha fatto con i quattro pescatori, ma per farlo, chiede da noi una risposta di fede. Questa nostra adesione preliminare deve maturare lungo un cammino di fede, che ci permetterà poi a mano a mano di capire meglio Gesù, interpretare correttamente i suoi segni, accogliere i suoi insegnamenti.
Dio però non ci vuol forzare: ci fa una proposta, ci offre un dono che dobbiamo noi accettare. Sarà poi Gesù che agirà in noi in maniera efficace, con la sua parola creatrice. Noi dobbiamo solo volerlo.



Fonte: da Progetto 1991

 

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