Ce la faremo anche questa volta...

Pubblicato il 16-09-2018

di Matteo Spicuglia

 Di Matteo Spicuglia - La crisi è in un dato. Meno 40% di vendite in dieci anni. Nessuno escluso. La Stampa e Repubblica oggi arrivano insieme a poco più di 300mila copie (erano 658mila nel 2007); il Corriere della Sera è fer­mo a 200mila (430mila nel 2007); il Sole24Ore a 58mila (185mila nel 2007). E così tutti gli altri… Una tendenza costante e inesorabile a tal punto da far dire a Giulio An­selmi, ora presidente dell’Ansa, già direttore di quotidiani: “Quanto sta avvenendo è l’ennesima di­mostrazione che i giornali stanno diventando irrilevanti”. Se la car­ta stampata non sta bene, anche la televisione non sorride: tagli ai costi, vertenze editoriali mai viste (per i giornalisti di Sky si annun­ciano trasferimenti ed esuberi), ascolti frammentati tra decine e decine di canali. In tutto questo, la rete e i social a loro modo resisto­no. L’online è fonte informativa per tanti, sempre più capillare, con un piccolo particolare: il digitale non garantisce in nessun modo i fattu­rati di un tempo. Basti pensare che i ricavi degli editori tradizionali in appena dieci anni si sono dimez­zati. Con ricadute occupazionali impressionanti. Quando si prende di mira l’informazione o la si ridico­lizza, spesso ci si dimentica che dietro a un articolo o un servizio televisivo c’è gente che lavora o che avrebbe il diritto di lavora­re: una realtà fatta sempre di più da collaboratori pagati pochi euro ad articolo, da una precarizzazio­ne strisciante, da professionisti che in tanti casi fanno fatica ad ar­rivare alla fine del mese. Questa è la situazione, inutile negarlo.

Cosa dire? Cosa fare? Di certo, con il pessimismo si fa poca stra­da. La storia dei mezzi di comuni­cazione è segnata da svolte più o meno traumatiche, da innovazioni che sul momento hanno creato scompiglio. Pensiamo alla com­parsa del telegrafo, oppure all’ar­rivo dei computer nelle redazioni dei giornali, una novità che ha ri­dotto al lumicino la categoria dei tipografici. Le trasformazioni tec­nologiche plasmano molto spesso anche le abitudini, gli stili di vita, suscitano nuovi bisogni, come nuove opportunità. Sarà così an­che questa volta. Forse non lo vedremo subito, forse dovremo ancora aspettare, ma dopo lo scossone di questi anni, un equi­librio tornerà.

Il punto però è un altro. È capire che al di là delle trasformazioni e dei mutamenti di un contesto, ci sarà sempre l’esigenza primaria, la necessità di essere informati. A maggior ragione in un’epoca complicatissima, in cui tutto quello che sembra, quasi sempre non è. Pensiamo alla politica internazio­nale, all’economia, ai rapporti tra gli Stati… In un mondo così, ci sarà sempre più bisogno di capire, di avere strumenti per farlo. Ci sarà sempre più bisogno di informazione pulita, onesta, magari più partecipata, ma intellettual­mente cristallina. Solo una informa­zione così è risorsa e via di uscita da bufale e faziosità, da disonestà e visioni limitate. Come la si difende? Facendo ognuno la propria parte. Gli editori, rimettendo al centro la dignità del lettore e dei giornalisti. Gli addetti ai lavori, rompendo il cerchio chiuso dell’autoreferenzialità, le logiche di casta che spesso hanno contaminato la professione. I lettori e i cittadini, te­nendo alta la domanda di qualità, dal momento che la buona informazione esiste nella misura in cui viene anche richiesta. Fare ognuno la propria par­te. Non c’è altra strada. La storia ce lo insegna. Se sapremo guardare avanti, ce la faremo anche questa volta.

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