Famiglia di famiglie

Pubblicato il 02-02-2018

di Matteo Spicuglia

di Matteo Spicuglia - Dalla Siria al Piemonte: una rete di solidarietà oltre la paura.

Alì e Khaldieh oggi sorridono. Guardano i loro nove figli con l’orgoglio di un padre e di una madre, ma anche con la consapevolezza di avercela fatta. Di essere riusciti a portare al sicuro tutta la famiglia, da quel giorno del 2013 quando bastò uno sguardo per dirsi cosa fare: fuggire. La vita ad Aleppo Est stava diventando pericolosa: le bombe, i morti, la paura di morire, la vita stravolta da un giorno all’altro. Alì era un tecnico specializzato in un’importante segheria della città: un lavoro dignitoso che gli permetteva di crescere i suoi bambini e ragazzi di ogni età.

La più piccola, Amal, oggi ha 3 anni, il più grande Abdallah 21. «Lo dissi subito a mio papà: non potevamo aspettare ancora», racconta. «L’unico modo per rimanere uniti era provare a scappare da quell’inferno». E così avvenne. Un viaggio terribile, in cento su un pullman da trenta. Uomini e donne ammassati, i bagagli sulla testa, soprattutto posti di blocco continui: l’unica soluzione per proseguire era pagare e basta.

L’arrivo a Beirut, in Libano, all’inizio fu una speranza, finita però nel freddo di un campo profughi. Quattro anni così: la vita nelle tende, lo sfruttamento in campagna per mettere insieme qualche spicciolo, nessuna prospettiva. Ma c’è qualcosa che aiuta ad andare avanti: è l’unità di questa famiglia, granitica, commovente. I volontari delle associazioni che lavorano per i profughi se ne accorgono subito. Dopo qualche tempo, c’è la possibilità di far partire in Europa almeno i figli più grandi, ma loro non vogliono: «Non possiamo dividerci.

O tutti, o niente!». Uniti nel bene e nel male. «Non sarei mai andato via da solo», dice Abdallah. «I miei genitori e i miei fratelli avevano bisogno di me e il mio compito era stare con loro. Ero convinto che prima o poi ce l’avremmo fatta». La speranza è diventata presto un fatto, quando la Comunità di Sant’Egidio e la Tavola Valdese sono riuscite ad aprire insieme al governo italiano un corridoio umanitario per i profughi siriani.

La famiglia Al Abdallah si è trovata così su un volo per l’Italia. Prima Roma, poi su al nord, a Torino, dove ad aspettarli c’era un progetto di bene che ha quasi dell’incredibile: una rete di oltre 150 famiglie italiane che si sono sentite interpellate dal dolore di chi fugge. «L’idea è partita da un gruppo – spiega Tommaso Panero – ed è stata poi rilanciata nelle parrocchie dell’Unità pastorale 9 della città. La risposta ci ha commosso». Chi dieci, chi cinquanta, chi cento euro al mese. L’impegno durerà due anni, con un buon numero di volontari che penserà al resto: l’insegnamento della lingua, gli aspetti burocratici, l’inserimento lavorativo.

Un progetto di integrazione, insomma, che punta alla piena autonomia di questa famiglia. Oggi, i figli hanno già imparato l’italiano e i genitori sono a buon punto, anche se fanno più fatica. Tutti però considerano l’Italia una seconda patria, un luogo in cui ripartire, in fondo rinascere. Nessuno di loro dimentica i drammi e il dolore del passato. Eppure, il bene ricevuto ha già cambiato le cose, sta permettendo di immaginare un futuro, una nuova vita. È già diventato occasione per restituire.

«Ho un’immagine che porto sempre con me, – dice Abdallah – quella dei bambini dei campi profughi a cui ho insegnato a giocare a calcio. Tra quelle tende era l’unico momento di gioia. So che non potrò tornare lì, ma sento che devo fare qualcosa. Voglio lavorare per me, per la mia famiglia, ma soprattutto per loro». Non c’è dubbio: Abdallah lo farà. Nel suo cuore, lo sta già facendo.

Matteo Spicuglia
COSE CHE CAPITANO
Rubrica di NUOVO PROGETTO

 

 

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