Dio, dove sei?

Pubblicato il 07-11-2012

di Flaminia Morandi

a cura della redazione - Il mistero della sofferenza e del male, la disperazione che divora tutto, la fatica ad accogliere e credere. La risposta è uscire da sé per farsi prossimo e condividere. 
Una domanda assillante di fronte ad una morte inaspettata, ad una malattia improvvisa, ad una delusione cocente, a un momento di sconforto: “Perché?”. La stessa domanda ci assale dinanzi a catastrofi naturali e a drammi come le guerre, la fame, le ingiustizie, l’incuria della terra, di cui si conosce il perché diretto, l’uomo, ma non si accetta che accadano.

LA CROCE E LE CROCI
E al perché segue un’altra domanda: “Se Dio è veramente Dio, perché non fa niente di fronte al male? Come mettere d’accordo un Padre buono e misericordioso con la sofferenza e le devastazioni del mondo?”.

In una sua riflessione, dom Luciano Mendes aveva evidenziato che il male nel mondo non può avere una spiegazione razionale. E aveva subito continuato: “Se l’avesse, non sarebbe più tale, perché diventerebbe comprensibile. Il male e il dolore sono talmente devastanti che non permettono più di vedere l’amore di Dio, di armonizzare il male evidente con la bontà del Signore. Ma davanti alla sfida del dolore incolpevole, è possibile un altro atteggiamento: riconoscere che non si è in grado di capire il perché queste cose succedono, ma non dubitare che Dio ci ama e affidarci a lui nella certezza che saremo capaci di capire in chiave nuova il perché di tanti misteri. È quello che san Paolo scriveva ai Romani. Riflettendo sui dolori diceva che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono convinti di essere amati da Dio. È la grande lezione della croce: non solo un mistero della sofferenza, ma anche una luce che illumina il mistero della vita umana quando si presenta la realtà del male”.
Riguardo a questo tema riproponiamo alcuni passaggi tratti da due articoli scritti per Nuovo Progetto. Il primo di Carlo Miglietta, il secondo di Flaminia Morandi.

Scrive Miglietta: “Che cosa ho fatto per meritarmi questa punizione? La tradizionale teologia che vede nelle sofferenze umane la punizione del peccato ha contribuito non poco a questo equivoco: per molti è ripugnante l’idea stessa di espiazione, che cioè esista un Padre irato e cattivo che esige soddisfazione dell’affronto subito con il peccato, e si placa solo, tra l’altro, con la terribile immolazione del Figlio. […] Il dolore, la malattia, la morte, non sono una punizione, ma fanno parte dell’ordine biologico, del nostro essere creature. […] Dio soffre nel vedere il suo amato sottomesso alla finitudine e alla morte. E nel momento stesso in cui ci crea pensa per noi il modo di farci partecipi della sua vita infinita, illimitata, immortale: per questo, già mentre ci crea, Dio progetta l’incarnazione del Figlio, per mezzo della quale egli stesso si farà finito, prenderà su di sé il limite dell’uomo e del creato fino alla morte e, per il mistero della sua resurrezione, porterà la finitudine umana nell’eternità e nell’immensità della sua vita divina.

Ecco allora che cos’è la fede: è credere che non è Dio che mi manda il male, ma che esso fa parte del mio essere creatura, e quindi finito […].
Tutta la mia vita, anche se segnata dall’handicap, dalla malattia, dalla sofferenza, è sempre un dono meraviglioso di Dio, perché è il luogo del mio incontro con lui, il mezzo per essere coinvolti nel suo mistero d’Amore. […] Dopo l’incarnazione del Figlio, il grande mistero non è più il perché del dolore, ma come Dio abbia potuto amarci tanto da farsi uno di noi, da soffrire con noi, da morire con noi e per noi, per farci suoi figli ed eredi (Rom 8,17)!”.

Flaminia Morandi parte dal detto “È l’ira di Dio”, che popolarmente si alza davanti alla catastrofi che spazzano e spezzano vite innocenti e fanno più poveri i già poveri dei poveri, per dire che “La fede cristiana non dà nessuna soluzione al problema del male. […] L’unica risposta che il cristianesimo dà al problema del male – del peccato come della catastrofe – è che se il mondo è trasformato nell’anticamera dell’inferno, Dio è già sceso in questo inferno, e lì ci attende per salvarci. L’unica risposta è Cristo. Dio-uomo prende volontariamente il posto di Giobbe e la sua croce s’identifica con quella dei milioni di Giobbe innocenti travolti dal male, perché abbiano parte – loro certamente sì – alla sua risurrezione”.

CUSTODI PER FAR VIVERE LA SPERANZA
E dopo il perché e il chiedersi perché Dio e male possano coesistere, c’è un successivo passaggio, una terza domanda: “Praticamente, cosa possiamo fare?”.
Ricorriamo ancora a dom Luciano. Diceva che “se consideriamo la vita umana come frutto della solidarietà, della condivisione, della partecipazione, allora possiamo entrare nel mistero del male condividendo con gli altri le situazioni in cui si trovano e farle nostre per amore, come ha fatto Gesù. Davanti a molte situazioni, pur non capendo il perché e il come sono permesse da Dio Padre, sentiamo delle forze che nascono dall’amore nostro verso di lui e ci affidiamo alle sue mani”.

Recentemente in una trasmissione su Rai2, Ernesto Olivero interpellato dai conduttori in relazione al terremoto di Haiti, aveva fatto questa considerazione: “Noi ci chiediamo: Dio, dove sei nel terremoto? Dio, dove sei nel dolore? È naturale e anche comprensibile che possiamo chiedere a Gesù il perché, ma lui può chiedere a me: Tu dov’eri? Dov’è tuo fratello?
Noi siamo i custodi gli uni degli altri, noi abbiamo la possibilità di costruire case che non si sbriciolano con un terremoto, noi abbiamo la possibilità di eliminare la fame nel mondo che ogni giorno – ogni giorno! – causa 100.000 morti…

Al momento di una catastrofe c’è una risposta emotiva che si esaurisce presto. Ma chi  pensa a quelli che ogni giorno – ogni giorno, non solo quando buca il video – muoiono di fame, subiscono violenze, sono piegati dalle ingiustizie?”. Ed essere custode implica anche la vicinanza costante e concreta, non emozionale e passeggera, con chi vive il dramma del dolore e della sofferenza.

Questo atteggiamento diventa ancor più significativo per chi soffre a causa delle tragedie provocate direttamente dagli esseri umani. Bisogna essere custodi e tirar fuori dal dramma chi è nella guerra, chi patisce per i diritti umani che gli vengono negati, dal cibo alla salute alla casa al lavoro.
“Sono forse io il custode di mio fratello?” è la frase di Caino. Il mio fratello è la mondialità, la storia, l’oggi, che ci viene incontro: apro gli occhi e mi prendo cura dell’uomo che trovo sulla strada. Nessuno di noi è padrone, siamo tutti custodi, anche del nostro mondo. C’è bisogno allora di un’economia che ci aiuti a non prendere senza dare, c’è bisogno di una politica che guardi lontano e che torni ad essere servizio, di una pace che si affidi al dialogo e alla solidarietà e non alle armi e alle imposizioni… Tutti siamo responsabili di questo progetto comune per ricomporre le fratture provocate dalle sofferenze e dal dolore.

Essere custodi diventa quindi una possibile risposta alle sofferenze che altrimenti causerebbero lacerazioni e scaverebbero fossati insuperabili.
Diventa un’apertura alla speranza. Essere custodi del bene comune e gli uni degli altri è un cammino impegnativo perché comporta di non limitarsi a delegare, ma partecipare e darsi da fare perché il mio fratello non abbia fame, non abbia sete, non sia ignudo, sia accolto, visitato, amato; abbia la possibilità di trovare la pace con se stesso, con la natura, con gli altri. E con Dio.


Speciale – LACRIME CON LE BRACCIA APERTE 2 / 8

Il dolore subìto e il dolore accolto, il dolore condiviso e il dolore disperato, il dolore del corpo e il dolore dell’anima. L’esperienza dell’uomo di ieri e di quello di oggi. Giovani e anziani, poveri e ricchi, forti e deboli: tante risposte, la stessa ferita, in ogni angolo del mondo. Un viaggio dentro le pieghe e le contraddizioni del più grande tabù dell’umanità, una ricerca di senso che può incontrare la speranza.
 

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