Borgo VITTORIA

Pubblicato il 10-08-2012

di Marco Grossetti

di Marco Grossetti - Giovani. Violenza. Morte. Un quartiere in lacrime. “Tutti ora siamo un po’ più soli qui”. Ma nasce la consapevolezza di sentirsi comunità.

Ci sono le panchine tutte piene di scritte, ti amo e ti voglio bene.Ci sono gli scivoli e le altalene. Siamo in via Vibò a Torino, e nella normalità di questi giardini maledetti, una domenica pomeriggio di poche settimane fa, Giorgio, un ragazzo di 15 anni, è stato ucciso senza motivo da due giovani di 17 e 26 anni.La sua colpa, non avere una sigaretta.

Gli amici e i famigliari, insieme a tanti ragazzi e tanti genitori, hanno riempito i giardini di fiori, lettere e candele per ricordarlo.Molti riprendendo una famosa canzone hanno scritto: “Solo che non doveva andare così, solo che tutti ora siamo un po’ più soli qui”. Ora guardano il cielo con gli occhi pieni di lacrime, pensando a Giorgio come ad un angelo, alla ricerca di un senso e della forza per andare avanti.Pochi giorni dopo, nello stesso quartiere di Borgo Vittoria, altri due giovani hanno ammazzato di botte il signor Domenico per rubargli la pensione. Con don Danilo Magni, della parrocchia di Nostra Signora della Salute, abbiamo cercato di capire che cosa c’è dietro questi episodi, cercando la speranza, oltre la rabbia e la tristezza per quello che è successo.
La mamma di Giorgio ha detto subito: non vogliamo vendette, non vogliamo altra violenza.

Questo atteggiamento e questo messaggio ribadito con insistenza dalla famiglia di Giorgino, soprattutto dalla mamma, ma da tutta la famiglia, anche dal papà, è stato fondamentale. Non si è tanto parlato di perdono, perché in quei giorni lì non era neanche umanamente possibile. Si è trattato piuttosto di dire: non facciamoci giustizia da soli, non confondiamo la giustizia con la vendetta.

Dopo quello che è successo ci sono dei ragazzini nel quartiere che vanno in giro con il coltello.
I ragazzi che vanno in giro con il coltello c’erano anche prima, il problema non è legato all’episodio di Giorgio. È importante che ribadiamo dei messaggi ai ragazzi, che tutti gli adulti lo facciano: per esempio se in discoteca il dj mandasse un messaggio chiaro da questo punto di vista farebbe del bene. La paura a volte non è giustificata, a volte c’è paura dell’altro perché non lo si conosce.
In questi quartieri di Torino, molto popolari, impersonali, quasi quasi al di fuori della cerchia dei tuoi famigliari e dei tuoi amici più intimi, non ti puoi fidare di nessuno.


È più comodo vivere così che non fare la fatica di aprirsi. All’interno di questi palazzoni uno non conosce nemmeno il suo vicino di casa, non fa niente per conoscerlo, e il fatto di sentirsi da soli aumenta il senso di paura verso l’altro.

Quali sono le responsabilità degli adulti?
Gli adulti hanno delle responsabilità perché sono i modelli dei ragazzi. Alcuni sono dei modelli esemplari, e ce ne sono tanti, e hanno la responsabilità di continuare ad esserlo. Gli adulti che invece non lo sono forse devono mettersi una mano sulla coscienza, e magari provare loro a cambiare qualcosa per diventarlo. Un messaggio simile l’ho detto anche ai ragazzi, perché anche loro sono responsabili. Se un giovane va in giro col coltellino, si fuma le canne, ruba, compra la roba rubata, compie tutta una serie di piccole azioni che sono ai limiti, se non addirittura fuori, della legalità, è chiaro che questo crea un contesto di regole non scritto all’interno del mondo giovanile che poi porta alla violenza. Anche i ragazzi sono responsabili da questo punto di vista, sono chiamati a comportamenti eticamente corretti nei confronti e del prossimo e delle regole che governano la nostra società.

Leggendo un qualsiasi giornale sembra che la violenza sia diventata la normalità in Italia.
Rendere a tutti i costi quotidiana e spettacolarizzata la morte e la violenza di sicuro indebolisce la coscienza di chi è più fragile, e chi è più fragile sono i ragazzi. Però con questo non voglio dire che c’è solo la stampa, ci sono anche tante altre cose. Per esempio qualche giorno fa leggevo, in un articolo de La Stampa, che ci sono dei videogiochi dove vince chi violenta più ragazze. La diffusione di certi messaggi, di certe immagini, aiuta ad indebolire il senso del rispetto della vita, perché chi è più fragile, chi è meno interiormente formato, non riesce più poi tanto a distinguere il reale dal virtuale, o dalla notizia.

Un sondaggio pubblicato in questi giorni dice che il 45% dei giovani italiani sono razzisti. C’è questo problema nel quartiere?
Ci sono dei ragazzi che affermano di avercela con gli stranieri, e che ritengono che i problemi della nostra società, o del nostro quartiere, sono legati alla presenza degli immigrati. Al di là di questo mi pare che il problema non sia il razzismo, ma ancora la paura di quello che non conosci, perché mi capita di vedere un ragazzo che dice: io i marocchini non li posso sopportare. Poi magari diventa amico di un marocchino e con quello ci va d’amore e d’accordo e dice: però, no quello è diverso, perché è mio amico. Quindi diventare amico dell’altro, conoscere l’altro, fa abbattere tante barriere.

C’è una speranza dietro questa storia?
Secondo me sì, perché i segni che abbiamo visto, sia nei giovani, ma anche in molti adulti, sono estremamente incoraggianti: io ho visto degli adulti reagire in modo splendido. Oltre alla famiglia di Giorgino, molti adulti si sono messi in mezzo ai ragazzi per cercare di farli ragionare, e nello stesso tempo per accoglierli, accompagnarli, consolarli.
E si sono visti tantissimi ragazzi che di fronte agli avvenimenti hanno saputo reagire in maniera dignitosa ed educata. Abbiamo visto tante belle scene di solidarietà, di vicinanza, di coesione, di meditazione, di preghiera, e tutte queste cose sono segni di speranza. Probabilmente alla fine di queste vicende il Borgo nel suo complesso ne esce con una rinnovata consapevolezza del proprio essere comunità.


Speciale – Il DNA della SPERANZA 7 / 8
Potremmo chiederci quale significato la nostra cultura dà alla speranza. Sicuramente: sopravvivere alla fame o alle catastrofi, un posto di lavoro, la salute, una vincita, una vittoria politica... Ma anche le riflessioni della filosofia e della teologia, che puntano lo sguardo oltre l’immediato. Le risposte sono tante quante le attese che ci portiamo dentro. Noi abbiamo scelto di parlare della speranza partendo da fatti concreti della vita, da testimonianze che raccontano come si può trasformare il negativo in positivo, come sprigionare le risorse che sono a disposizione dell’uomo. Senza dimenticare che la responsabilità di portare alla luce una situazione imprigionata dal buio è personale. Siamo come delle candele che aspettano di essere accese per essere e fare luce. E lasciarsi consumare attraverso le carità, attraverso la compassione, attraverso l’aiuto agli altri.

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