Vivere da vivo

Pubblicato il 10-08-2012

di Pietro Cavallero

di Pietro Cavallero - Dall’ergastolo alla conversione. L’ex bandito Pietro Cavallero aveva ucciso cinque persone e ferite 27. Il suo incontro con Dio, negli anni di semilibertà all’Arsenale della Pace.

Devo molta riconoscenza a chi mi ha aiutato a compiere un percorso non facile. Se oggi i miei occhi non sono più intorbiditi dai travagli, dai dubbi, dal male, e non sono più arrossati dalla rabbia della disperazione, lo debbo non tanto a me stesso quanto a coloro che da sempre hanno gli occhi limpidi e puri dei bimbi. Persone che mi hanno dato coraggio e mi hanno insegnato molto. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno vissuto in carcere che ho potuto ritrovare un po’ di limpida trasparenza, nell’animo e negli occhi. Devo dire grazie a Ernesto Olivero, che ha avuto fiducia, tanto da accollarsi il rischio di accogliermi al Sermig.

Il cambiamento di stato, dal carcere alla libertà, mi ha certamente distolto da molti motivi di frustrazione; ma la possibilità di interrogare me stesso con maggiore serenità non mi è venuta dal solo fatto di essere fuori, bensì dal fatto che sono stato accolto in questo ambiente. Qui ho potuto veramente prendere coscienza con una autentica, razionale chiarezza.

Una profonda revisione critica del mio comportamento interiore, durata molti anni, mi ha portato a rifiutare e a condannare quelle mie scelte sbagliate che si sono tradotte in azioni delittuose. Questo processo di maturazione non è ancora terminato, poiché sino all’ultimo istante della vita ognuno deve trovare la forza e la capacità di continuare a crescere nel bene. Esso è iniziato con il mio arresto, ma già prima avevo avvertito in me, seppure indistintamente, la repulsione per ciò che stavo facendo; però l’avevo scambiata solo per stanchezza e tensione.

Il carcere non è stato determinante per il mio cambiamento; ne è stata solo l’occasione casuale ed esteriore, anzi esso ha rischiato poi di peggiorarmi e di incanaglirmi ancora di più. Determinante è stato l’impatto con cui mi si sono presentati con cruda evidenza i tragici risultati delle mie azioni: il male e il dolore arrecato ad altri. Non ho mai sofferto per me stesso, per la mia condizione di recluso: sapevo di doverla accettare come conseguenza del mio comportamento; ma ho sofferto per coloro che ne sono stati vittime.

All’inizio ho visto negli occhi di mia madre e di mia moglie rispecchiarsi tutto il dolore e l’orrore del mondo. Poi il mio rimorso e la mia pietà si sono estesi agli altri. Ho cominciato a riflettere intensamente su tutti coloro ai quali avevo fatto del male, mi sono immedesimato in loro, ho sofferto per loro e con loro, e non mi hanno più lasciato. Mi sono condannato, senza appello. Ciò mi ha lasciato per anni in una sorta di disperazione, poiché mi rendevo conto dell’impossibilità di riparare; infatti la pena inflittami non sanava un bel niente, anzi peggiorava la situazione, aggiungendo male a male.

Ho sperimentato in me e negli altri che il carcere in se stesso non è assolutamente una risposta giusta e adeguata alla trasgressione, né ha efficacia rieducativa e risocializzante. Esso dimostra solo che anche nelle società più avanzate c’è tuttora l’incapacità di impegnarsi a trovare altre soluzioni, più umane, giuste, efficaci e utili ai fenomeni della devianza. Il carcere punisce, segrega, umilia, ma non riesce a retribuire le vittime del delitto, né a fornire altri valori, positivi, al reo; non dà speranza.

Io la speranza, e quindi l’impegno a cambiare e ad operare in modo corretto, l’ho ricevuta, come un preziosissimo dono, da altre fonti: dallo studio, dalla riflessione, dalla meditazione nelle lunghe giornate di isolamento, e poi dal contatto con le persone che mi hanno aiutato e capito, che hanno risposto con amore e pazienza alle mie intemperanze, ai miei scatti; che mi hanno insegnato che per cambiare le cose sbagliate non serve la violenza, altrettanto ingiusta, ma l’impegno costante nell’operare bene, per un fine che sia contemporaneamente umano e trascendente. Per questa via ho potuto trovare la serenità perduta, passando dalla sterile e disperante macerazione nell’autocritica, confinata a un livello puramente umano con tutti i suoi limiti, alla speranza, che si sostanzia della certezza che la nostra vita non si riduce tutta qui, alla nostra quotidianità intrisa di bene e di male, di successi momentanei, di debolezze ed errori, ma si proietta nel futuro, davanti a Colui che, solo, può giudicare e perdonare e darci, se la meritiamo, la pace vera. Impegnandomi in attività finalizzate al bene, con gente che dedica la vita a questo fine, mi sento più leggero, anche se non meno colpevole.

Si attenua il peso dei soli sentimenti sotto la spinta a superare il passato e la conseguente gratificazione per i risultati positivi, ma ciò non porta a dimenticare; anzi, l’autocritica avviene su un piano più razionale e maturo. E questo ancor meno di prima permette scappatoie o finzioni che servano a una qualsiasi giustificazione. In ogni caso, per doloroso che sia, non posso sfuggire a me stesso, non posso rinunciare a pensare al passato. Non credo che si possa vivere senza ideali che ci trascendono: almeno io ho fatto questa esperienza. Dio non si dimostra, ma si mostra. Se l’esistenza di Dio è oggetto di pensiero fideistico, altrettanto lo è la sua non esistenza. Se poi, come apprendiamo dalla realtà, il mondo procede verso una continua crescita della coscienza e dello spirito, secondo un piano, questo non può essere scaturito dal nulla.

Ho sempre sentito la nostalgia dello spirito, di una vita che si richiamasse ai valori della cultura, della ragione, e anche della fede. In qualcosa, insomma, che trascendesse la mia esistenza quotidiana. Anche quando facevo il bandito sentivo confusamente che c’era un conflitto irriducibile tra ciò che facevo e le mie aspirazioni. Tentavo di annebbiare questo conflitto nell’azione, allontanandone da me il pensiero, o cercando di ingannare me stesso inventandomi giustificazioni. È per questo che non sono mai vissuto in pace, interiormente.

Sono convinto che l’individuo può incontrare se stesso solo in Dio e che solo in lui si può ricomporre la lacerazione tra noi e gli altri e quella personale. Il nostro cammino, del singolo e di tutto il genere umano, diventa più lungo, aspro e faticoso quando vogliamo avere sempre più cose e potere; ma ho l’incrollabile certezza che la Provvidenza non ci lascerà soli. All’ospedale di Venaria dove sono ricoverato, i miei mali ritornano sempre più gravi, soffro molto. Sono contento di soffrire perché espio; la mia fede si consolida, la mia forza cresce.

Speciale – Vicino all'uomo, vicino a Dio 4 / 7
L’uomo di oggi ha ancora bisogno di Dio? È la frattura più profonda del nostro tempo. Solo l’esempio e la credibilità delle scelte possono ricomporla. La chiave per incontrare Dio e rimanere in comunione con lui è stata per noi l’incontro con l’uomo affamato, assetato, nudo, carcerato, malato, senza speranza, senza appigli solidi a cui ancorare la propria ricerca di senso della vita.

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