Vivere l’Avvento/3

Pubblicato il 08-01-2006

di Renato Rosso

Una lettera dall’India ci suggerisce che testimoniare la fede può essere “compromettente”.
D’altronde come definireste la scelta del Signore di nascere in una mangiatoia?


di Renato Rosso
     
Cari amici,
l’India è un Paese pieno di sorprese.
Ha anche la città della gioia, ma è soprattutto il Paese della speranza. I giovani non vogliono fuggire come in altri posti, sanno che nel loro Paese possono costruire un futuro. L’India è un seme prezioso che può essere soffocato, può marcire, ma può anche sviluppare un albero forte e robusto capace di dar vita a milioni di persone. Non possiamo essere superficiali nel vedere la povertà dell'India. In questo Paese c’è una ricchezza umana, culturale, spirituale che supera l’immaginazione del turista o del lettore di vita indiana.
Negli stessi slums c’è un’energia di vita che noi non ci sogniamo. Certo l’India ha grandi ferite da curare. Le caste, che anche il Medio Oriente, gli Egizi, i Semiti, i Greci, i Romani hanno avuto (e in Europa non ne siamo del tutto guariti), qui in India sono state in qualche modo consacrate dalla religione e nessuno sa quanto ciò sia profondo nelle radici culturali di questo popolo.

Quindici giorni fa mi trovavo in una città del Madya Pradesh, nel nord dell’India, e conversai a lungo col preside di una scuola superiore di 2500 alunni. Il preside è battezzato e dopo aver parlato a lungo degli zingari mi disse con sincerità e ingenuità ciò che gli altri pensano solo e non dicono: Vedi, il tuo lavoro è bellissimo, io sono ammirato e qui nella nostra città abbiamo molti di questi accampamenti, mi piacerebbe anche fare qualcosa per loro, ma adesso io sono preside e appartengo all’alta società. Ogni giorno devo incontrarmi con sindaco, consiglieri, avvocati, medici, perché hanno i loro figli nella mia scuola. Vedi padre Renato, se io cominciassi a visitare questi poveri, zingari e miserabili, perderei la mia dignità e credibilità.
 Disse esattamente così. Non lo investii, lo trattai con calma e da fratello, perché era ingenuamente sincero; ma ho dovuto pur dirgli, perché era battezzato: Amico, io conosco uno che era preside come te, anzi era più che preside, era addirittura Dio, ed è diventato un bambino in una grotta di nomadi pastori, tra la puzza del letame e un’igiene molto diversa da quella di una sala parto di un qualsiasi ospedale decente. È vero, anche Lui ha perso la sua credibilità, ma lo ha fatto per dirci che la strada è quella… altrimenti non possiamo essere cristiani. Abbiamo ancora parlato a lungo e ci siamo lasciati da amici. Certo il preside dovrà lavorare ancora molto per curare le sue ferite.

Indiani ed europei dobbiamo guarire dalla malattia di salire, anche e specialmente nella fede. Normalmente pensiamo che fare esperienza di fede significa salire, come il fumo e il profumo d’incenso: raggiungere Dio, andare in alto fino a Lui, fare il cammino verso la vetta… ma fare l’esperienza di fede cristiana significa scendere, scendere in basso. Perché Cristo si trova laggiù, non lassù. Si trova là nel fondo della valle, nella cantina, nella stiva delle navi, sotto il ponte, sotto terra nelle miniere: si trova in basso, o meglio lo si incontra più facilmente in basso.
Certo è con Lui che il Padre è Creatore del cielo e della terra, ma la proposta che ci viene fatta è questa: scendere, scendere come l’acqua, scendere sino al venerdì santo e solo là si incontrerà il fuoco della Risurrezione che ci farà risalire.

Varanasi, abluzioni di purificazione
nel fiume Gange
Per finire questa lettera, lasciate che vi racconti la cosa più bella che ho visto in sei anni da queste parti. Mi trovavo in una famiglia di indù, padre, madre e due figlie. Le figlie quel mattino erano a scuola. Il capo famiglia è anche direttore di una ONG, ed è preside di una scuola con 1200 alunni. In casa c’era un giovane di vent’anni o poco più, che era un po’ il factotum. Era stato mandato a fare delle fotocopie e a imbucare delle lettere, e aveva pure preparato il tè per noi: non era uno schiavetto di casa, ma nemmeno un figlio molto adulto o un professore della scuola.

Al momento del tè il direttore chiamò la moglie e chiese al ragazzo se tutto era pronto. rispose, ed entrò con il sottocoppa e quattro tazze di tè: una era per l’ospite – il sottoscritto –, l’altra per il direttore, una per la moglie – che rarissimamente prende il tè con gli altri – e una tazza per lui. Guardai intensamente se ci vedevo giusto: quattro tazze, una anche per la moglie, una anche per lui. Allora conclusi: l’India è guarita. Se queste quattro persone possono sedersi a prendere lo stesso tè, tutto è risolto. Se esistono questi tre, ne esisteranno altri tre che io non conosco, e forse trenta, e in futuro ne esisteranno trecento, perché è possibile, e poi tremila, tre milioni, e l’India sarà guarita anche da questa ferita sociale.
E i poveri canteranno il Magnificat…


Renato Rosso
da Nuovo Progetto dicembre 05

 

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