Le 99.000 ore
Pubblicato il 31-08-2009
La speranza semplificata. Lavorare in casa. Rivalutazione del tanto bistrattato «lavoro domestico»: a livello economico, politico e umano.
di Giorgio Ceragioli
Siamo quello che siamo Ma su «quello che siamo» possiamo cercare di costruire qualcosa di più. Come se a una casa volessimo apportare qualche aggiunta positiva: se abbiamo molti soldi (talenti) possiamo pensare a una sopraelevazione di due o tre piani, a ristrutturare tutto l'edificio esistente, ad aggiungere un'ala nuova. Se di soldi (talenti) ne abbiamo pochi possiamo partire dal poco, poi chissà che non piova sul bagnato e non si aggiunga qualche soldo (talento): tener pulito, dare il bianco, aggiustare le finestre, aggiungere un balcone, rendere abitabile la soffitta, ripulire la cantina. Son cose, forse, da poco, ma anch'esse importanti, se ci interessa una casa confortevole, da utilizzare con piacere, tutti i giorni, da rendere più accogliente. |
Come i granelli di sabbia |
È questa la cifra sbalorditiva che rappresenta la quantità del nostro lavoro: sembra quasi il prezzo di un oggetto da vendere, tenuto un po' basso per non impressionare il cliente. E se siamo «gente comune», quella degli articoli precedenti di questa serie; gente che deve lavorare per vivere; che non ha avuto una vocazione speciale di servizio diretto a chi ha bisogno (nella preghiera, nella consacrazione, nella politica, nell'assistenza); gente che ha una famiglia, dei figli, dei genitori anziani, un vecchio zio; gente «laica» perché vive la quotidianità del lavoro comune, di quel tran-tran che spesso appare grigio: se siamo parte di questo gruppo, ebbene le 99.000 ore ci debbono confortare, entusiasmare, perché sono uno dei significati e una delle speranze della nostra vita. |
Ci vuole il calcolatore Pensiamo ancora a un esempio casalingo, alle cose di «routine». Spazzare e pulire: una volta al giorno per mezz'ora; spolverare: una volta al giorno per mezz'ora; fare i letti: una volta al giorno per mezz'ora: far da mangiare: due volte al giorno per un'ora e mezza in tutto; lavare piatti e biancheria: un'ora al giorno. Fatte le somme, si hanno quattro ore al giorno che, moltiplicate per 365 giorni e per 50 anni, fanno 73.000 ore. Valutiamo, adesso, economicamente. le 73.000 ore dei lavori quotidiani (e non sono tutti) a 13.000 l'ora (il costo di un'ora di manovale). Sapete quanto viene? 949 milioni! Dieci, venti volte il costo dell'alloggio. Volete valutarle solo 3.000 lire? Volete ridurle a 3 ore al giorno al posto di 4? Volete considerare solo 45 anni? Rimangono ancora 147 milioni! Tre, quattro volte il valore dell'alloggio cui quel lavoro casalingo è dedicato. |
Ecco il valore economico delle «piccole cose». Ma altre sono altrettanto impressionanti. Se le mie informazioni non sono sbagliate, e credo proprio che non lo siano, il costo di un bambino in un asilo-nido è oggi per lo meno 1,5-2 milioni al mese; la retta pagata per un anziano in un ricovero è di 300.000-700.000 lire al mese; un pasto in trattoria per una famiglia di cinque persone può arrivare facilmente alle 25.000-40.000 lire. Queste cifre fanno pensare. Dicono che il lavoro fatto oggi normalmente dalle donne dovrebbe avere riconoscimenti ben maggiori. Dicono che è assurdo cercare di eliminare le attività e le responsabilità della famiglia, e pensare di delegare tutto ai servizi sociali: infatti, anche senza pensare alla diversa capacità di voler bene e perciò alla qualità del servizio, che nei casi normali dovrebbe essere nettamente superiore in famiglia, già solo sul piano economico una politica di delega totale porterebbe al disastro.
Al di là delle cifre Ma queste cifre danno anche una speranza. Una speranza grande pur se semplice. Una speranza profonda pur se semplificata. Quella che dice come la vita di ogni giorno abbia un senso, un valore, già sul piano economico. Quella che dice come il lavoro di ogni giorno, anche se ritenuto oscuro e modesto - come lavare le mutande o scopare - può essere considerato un primo, importantissimo servizio alla società e perciò ai poveri, agli emarginati: perché evita emarginazione, perché crea possibilità di impegno, perché crea disponibilità di tempo e di soldi a favore di chi ha bisogno del nostro tempo e dei nostri soldi. Una speranza che ciascuno di noi può avere. Una speranza semplice perché fatta di cose piccole ma grande perché ammucchia un pezzetto sull'altro, con continuità. Una speranza sconvolgente perché mette in luce l'importanza di cose dimenticate, perché dà respiro ai più modesti allo stesso modo che ai più grandi. Ma di questa speranza, del suo valore sociale, della sua incisività sociale e politica, del rivolgimento culturale che essa può portare, cercherei di scriverne un'altra volta. |
di Giorgio Ceragioli |