Franco Leoni Lautizi all'Università del Dialogo

Pubblicato il 11-02-2020

di redazione Unidialogo

È tempo di pace

Le guerre sono tutte uguali, portano la morte e niente altro. La testimonianza di Franco Leoni Lautizi sopravvissuto all’eccidio di Marzabotto.

Vengo da una famiglia contadina molto povera, avevamo poco ma quel poco era per tutti. Avevo 5 anni e 8 mesi quando nel mio paese arrivarono i tedeschi. Mi piacerebbe fare come i cellulari di oggi che premi un pulsante e cancelli i video: io ci ho provato ma non riesco a cancellare i miei ricordi... Nella guerra ho perso dodici parenti, compreso mio fratello nella pancia di mia mamma. Il 29 settembre 1944 eravamo in un rifugio con altre 20 persone. Mia mamma ebbe le doglie. In quel rifugio era impossibile partorire. Con la nonna siamo usciti verso la casa che stava già bruciando per prendere lenzuola e il necessario per partorire. Al ritorno, a poche decine di metri dal rifugio, siamo stati mitragliati. La nonna ha buttato me e mia mamma nel fosso. Lei è morta subito dopo. Siamo entrati in un pagliaio. Io ho preso tre pallottole, mia mamma aveva una pallottola nel ventre. Ricordo il sangue, mia mamma che urlava disperata: la paglia ripara il freddo e il sole ma non il piombo delle pallottole… Dopo un po' di tempo sono venuti a prendermi e mi hanno portato nel rifugio. Sentivo che avevano già seppellito nonna e mamma. Era già pronta anche la mia fossa. Mio padre, tornato dal nascondiglio nel bosco usato dagli uomini, disperato per i tanti morti della sua famiglia e perché pensava di aver perso anche me, decise di consegnarsi ai tedeschi. Dopo un anno, abbiamo trovato il suo corpo lungo un fiume: lo avevano ucciso dopo pochi giorni dalla consegna, lo abbiamo riconosciuto dai vestiti.

Durante l’ultimo anno di guerra sono stato tenuto in un luogo sporco predisposto dagli anglo-americani, eravamo nove, non ci conoscevamo. Abbiamo patito tanta fame. Ricordo quel Natale che un mio parente mi aveva regalato un mandarino. Mangiammo pure le bucce e tenemmo i semi per metterli in bocca ogni tanto per ricordarne il gusto. Per la fame piansi per una pentola di fagioli caduta sui piedi di un mio compagno: capite, non piangevo per il mio amico ma per i fagioli persi…

In seguito mi hanno mandato in un orfanotrofio tenuto da suore molto rigide e severe, ci sono rimasto cinque anni, eravamo oltre 200 bambini. La domenica venivano i parenti in visita, ma per me non c’era mai nessuno.

Un giorno, venne una donna minuta, aveva 56 anni. Mi chiese se volevo andare a stare da lei. Non l’avevo mai vista, e diffidente risposi: «Io vengo, ma poi si mangia?». Quella donna buona mi accolse e trovai una casa grande con tanto da mangiare, i domestici che mi chiamavano “Signorino”!

Purtroppo, in seguito, quella signora si ammalò e morì. Prima però volle adottarmi. Mi ha sempre trattato come un figlio. Io ho sempre faticato a chiamarla “Mamma” perché pensavo alla mia vera mamma. Poi, per gratitudine per quello che aveva fatto per me, ci riuscii prima che morisse. Così morì con un sorriso grande.

Quando seppi dell’arresto di Walter Reder, il maggiore nazista che comandò l’eccidio di Marzabotto, per la rabbia mi venne voglia di andare a cercarlo per ucciderlo. Quando sono andato ad abitare a Rimini ho conosciuto molti ragazzi tedeschi come me. Ho ascoltato le loro storie e ho capito che anche loro avevano sofferto molto e patito per le scelte dei loro padri. Ho così scelto di abbandonare la via dell’odio. Ho capito che vivere con l’odio è solo una parvenza di vita perché non sei mai in pace con te stesso. Si vive proprio male. L’odio non porta a niente, il perdono libera.

È sempre stato difficile raccontare. Anche ai miei figli. Avevo paura che non mi credessero. Poi ho capito l’importanza della trasmissione della memoria per i giovani. Ho sentito l’esigenza di andare nelle scuole per raccontare la mia vita nonostante la salute affaticata. È importante scegliere la pace. Mai più guerra!  È un’avventura senza ritorno!

Due anni fa ho voluto incontrare quel giocatore che, dopo un goal, mostrò una maglietta fascista e fece il saluto romano. Il gesto fece scalpore. Io lo volli conoscere e capì che dietro il suo fascismo, non c’era una vera scelta politica ma incoscienza: era un modo per mostrare ribellione. È stato importante passare una giornata insieme, parlarci. Tutti, associazioni e comuni, gli avevano fatto causa. Io non volevo perché non era la strada giusta quella della via giudiziaria. Penso di aver fatto bene.

Io giro le scuole da 4/5 anni perché solo i giovani possono salvaguardare il futuro. Io vedo speranza nei giovani che incontro perché mi capiscono, mi vengono a salutare, mi abbracciano e mi consolano.

di Renato Bonomo


Foto: Renzo Bussio

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