Filippo Grandi all'Arsenale della pace
Pubblicato il 23-03-2019
RIFUGI E RITORNI
La guerra e la pace, le sofferenze dei rifugiati, la sfida dell’integrazione, ma anche la testimonianza di una vita spesa per gli altri. Sono stati i temi al centro della visita dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati Filippo Grandi all’Arsenale della Pace di Torino, ieri 22 marzo. Grandi è stato ospite dell’Università del Dialogo del Sermig per presentare il suo ultimo libro Rifugi e ritorni. Storia del mio lungo viaggio tra i rifugiati, filantropi e assassini”. Il libro è il racconto della sua vita: dalle prime esperienze con i profughi cambogiani nel 1984 alla carriera diplomatica nelle Nazioni Unite, Grandi ha gestito crisi umanitarie in diversi Paesi, tra gli altri il Sudan, la Siria, l’Iraq, la Repubblica Centrafricana, lo Yemen e l’Afghanistan. Dal 1 gennaio 2016 è a capo dell’agenzia Onu che si occupa di oltre 65 milioni di profughi e rifugiati.
Ecco alcuni spunti del dialogo con i giovani:
Ho vissuto la mia vita per gli altri. In questo ho preso spunto dalla mia famiglia lombarda e cristiana, rivolta all’impegno verso i più poveri. Poi, fin da bambino ho provato la passione di andare lontano; evidentemente queste due ispirazioni, non so come, si sono unite...
Tutto è cominciato quando da ragazzo ho avuto il coraggio di accettare di andare per tre mesi in Thailandia. Ho deciso di esserci, il verbo che più ricorre nel mio libro. Esserci significa impegno, essere presente: io non lavoro per i rifugiati, io lavoro con i rifugiati, condividendo il lavoro e la fatica quotidiana. Io non ho mai preso parte a trattati o negoziati: sono sempre stato nelle periferie dei conflitti, vicino alle persone sofferenti. Essere in periferia ti porta di colpo ad essere al centro della storia; l’11 settembre 2001 ero in Afghanistan, ed è stato importante stare da quella parte del mondo per evitare di dimenticare gli ultimi.
Viviamo un tempo in cui la politica strumentalizza in modo duro il problema dei rifugiati e dei migranti. Un’idea diffusa è che i rifugiati vogliano approfittare del Paese che li accoglie. Ci dimentichiamo però che spesso non hanno scelta oltre alla fuga e che sono animati da un urgente desiderio di tornare a casa. Anche dopo molti anni il desiderio è comunque vivo anche se meno stringente.
Rifugiati e sfollati sono circa 70 milioni, l’85% si trova in Paesi poveri che sono spesso molto vicini al loro paese di origine, proprio perché vogliono tornare al più presto. Le crisi umanitarie sono quasi sempre il risultato dei fallimenti della politica. L’Onu è stata pensata alla fine della seconda Guerra Mondiale perché non si verificassero più conflitti del genere. É uno spazio dove i governi possono parlarsi, e questo è comunque importante: pensiamo alla guerra fredda, l’unico luogo dove le due superpotenze Usa e Urss, si potevano parlare era proprio il Palazzo di vetro.
Forse oggi più che mai l’Onu è necessaria per creare spazi di dialogo e confronto, uno spazio vuoto che gli Stati possono riempire con la loro volontà. È un’occasione anche se oggi facciamo male la pace perché non sappiamo più dialogare. Perdere anche l’Onu significherebbe pertanto aprire una fase di politica estera molto pericolosa.
Nel mio lavoro intorno al mondo ho provato molto spesso un senso di impotenza e paura. Però avere paura è un bene, è sano perché stimola a cercare nuove soluzioni. A volte è il coraggio della disperazione per tentare soluzioni. Molto spesso sono proprio le persone rifugiate a darmi coraggio con la testimonianza della loro vita, quando incontri persone che trovano la forza di lasciare tutto. Lasciare tutto è una decisione di un coraggio incredibile.
Occorre fare una distinzione tra rifugiati e migranti: oggi c’é molta confusione nell’opinione pubblica, anche perché la storia delle persone mescola spesso le carte mettendo insieme i due aspetti. I rifugiati hanno dei diritti ed è opportuno mantenerli, poi bisogna ragionare insieme sui diritti dei migranti. L’Onu ha proposto due patti, uno per i rifugiati, uno per i migranti, in maniera da coordinare interventi e orientare i flussi, però molti Paesi non hanno accettato la proposta per motivi politici. Con il rischio che la confusione continui e l’immigrazione rimanga disordinata e fonte di preoccupazione sociale.
I Paesi con più rifugiati sono, in ordine crescente: Iran, Libano, Uganda, Pakistan, Turchia, che ha 3,5 milioni di rifugiati. l’Europa dopo la seconda Guerra Mondiale ha creato una rete di protezione per i rifugiati molto buona e valida, visti i flussi piuttosto limitati come nel caso dei rifugiati provenienti dai Paesi comunisti negli anni Cinquanta e Sessanta. Nell’ultimo ventennio, a partire dalla ex Jugoslavia, nuove masse di rifugiati hanno messo in crisi questo sistema per l’alto numero di persone in movimento. Le attuali difficoltà nascono nel 2014-2015 a causa della crisi economica, ma soprattutto per la cattiva gestione politica del conflitto siriano. Il conflitto siriano ha mobilitato non solo i siriani ma i rifugiati di tutti i paesi vicini. L’Europa non era pronta ad affrontare la situazione, si sentiva debole per la crisi economica e il terrorismo. In questa situazione di caos e fragilità, molti politici europei hanno strumentalizzato questo fenomeno migratorio per conquistare il consenso dell’opinione pubblica.
Il caso libico. L’azione di riduzione dei flussi non è limitare gli sbarchi o litigare su chi li accoglie. L’importante è capire l’intera catena dei viaggi. Ci vuole una prospettiva strategica di lungo periodo, di investimenti. Occorre guardare al problema nel suo complesso. La Libia è un anello di questa catena. La Libia è ancora in guerra e questo crea problemi ai libici e ai migranti. Ci sono bande che vivono di ogni genere di traffici che prosperano in mezzo all’anarchia. Per risolvere il problema libico, bisogna affrontare la politica libica, pacificando la società attraverso una forte influenza internazionale. I casi come la Libia, la Siria, lo Yemen dimostrano che la guerra non finisce perché le potenze internazionali non sanno mettersi d’accordo. Ogni disaccordo tra i governi europei, Russia, Usa è un incentivo a continuare la guerra.
Non basta dire che la diversità arricchisce, bisogna viverla, sperimentarla. Altrimenti vince l’idea della diversità come pericolo. Le nostre società hanno paura di perdere il lavoro, sono insicure per il terrorismo. Queste paure sono state sottovalutate ed ora esplodono. Bisogna affrontarle. Ricordiamoci poi che a fare la vera integrazione non sono i governi ma la società civile, proprio come accade in Arsenale.
Il lavoro umanitario ti costringe a trattare con chiunque. In casi di guerra devi confrontarti con criminali e assassini. Operando in Libia, cercare di aiutare le persone rinchiuse nei campi, significa trattare con aguzzini. Per questo ci accusano di scendere a patti con i criminali. Però se vogliamo aiutare veramente bisogna sporcarsi le mani. Questo non significa fare il male ma trattare con il male. Io da ragazzo non pensavo che ci volessero così tanta diplomazia, pazienza, frustrazione.
Però tutto questo serve a portare aiuti concreti. Nel lavoro umanitario, di fronte alla fragilità della pace, agli sforzi enormi per ottenere risultati minimi, ci vuole tanta umiltà per accettare la sconfitta. Quando sono partito ero un grande ingenuo, poi mi hanno portato in un ospedale e ho visto un bambino morire di malaria. Questo episodio ha segnato tutta la mia vita. Quella morte era una sconfitta, ma poi ho capito che l’importante era non mollare mai, continuare a portare soccorso a tutti gli altri. Ho capito da allora che anche di fronte a numerose sconfitte non dobbiamo cedere e continuare a proporre azioni di solidarietà. Questo non vale solo per le crisi umanitarie ma anche nei contesti di tutti i giorni.
A cura di Renato Bonomo
foto: R. Bussio