Il dono della speranza

Aiutiamo l'uomo del nostro tempo a "tirar fuori" la speranza assopita...

di Rosanna Tabasso

 

Quando il Signore ci ha pensati, ci ha affidato la speranza come suo dono da vivere nel nostro tempo. L’abbiamo scoperto negli anni ‘80, quando l’Italia era sconvolta dalla violenza del terrorismo. C’era chi gridava, chi manifestava, c’erano rapimenti, uccisioni e il presagio di un disegno nascosto che potesse cambiare per sempre la vita della Nazione. Noi ci radunavamo nelle piazze di Torino e sceglievamo il silenzio, la preghiera, da cui affiorava una serenità profonda e fiduciosa, la speranza appunto, che ci aiutava a guardare avanti. La gente ci osservava e ci confermò questa caratteristica: “Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,15). Non era farina del nostro sacco, né superficialità di giudizio, ma un sentire di cui eravamo solo strumento. Abbiamo capito lì che la speranza è dono di Dio. Lui la infonde a chi cerca risposte e non può trovarle in se stesso.

È il dono che nella Scrittura viene fatto agli umili di cuore. Creature che vivono il legame con Dio non per propiziarselo ma come l’essenza del loro quotidiano: lavoro, famiglia, servizio, difficoltà e grandi prove della vita, ogni cosa è per loro incontro con Lui. Queste persone comunicano speranza perché vivono con Dio. Chi le avvicina impara a “tirar fuori la speranza assopita nel proprio cuore”. Giovanni Paolo II nel 1978 ci confermò proprio questo mandato. Chi vive così scopre una dimensione della speranza che pochi hanno il coraggio di affrontare: il mistero del Regno di Dio che avanza e arriverà al suo compimento. Abbiamo familiarità con Dio che si fa uno di noi, con noi, molto meno con la sua promessa di farci come Lui, in Lui. Eppure è la promessa piu grande: il Signore, risorto e vivo, tornerà per portare a compimento il suo Regno e sarà per l’eternità. Le comunità cristiane dei primi secoli vivevano attendendo la sua venuta e invocandoLo spesso: “Vieni, Signore Gesù!”. Non era un modo di dire, sentivano la precarietà della loro vita, sapevano di non bastare a se stessi, erano perseguitati per la fede... L’attesa del ritorno di Cristo, la pienezza del suo Regno dove i poveri sono beati, dove quelli che piangono sono con-solati, dove i perseguitati ricevono la ricompensa (Mt 5), dove “amore e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno” (Sal 85,11) ha nutrito la speranza di generazioni lungo la storia della salvezza.

E a noi cosa dice? Noi moderni siamo lontani da questa attesa: perché cercare qualcosa di cui non conosciamo la natura se siamo già appagati? Giusto la sofferenza e l’esperienza inevitabile della morte ci scuotono, ma sono attimi che cerchiamo di allontanare in fretta per poi tornare a vivere. Attimi in cui spesso, anziché aprirci alla speranza del già e non ancora, ci ribelliamo a Dio: perché questo dolore, questa calunnia, questa morte ingiusta, perché tu che sei Dio l’hai permessa? Perché non intervieni? Spesso siamo noi cristiani i più lontani dalla speranza, quelli che si sentono traditi per non aver ricevuto risposta alle loro preghiere, i più sordi alla parola “Beati voi quando...”, quelli più estranei all’attendere. Certo, non dobbiamo cadere nell’indifferenza verso il presente, rifugiandoci in un’attesa passiva di ciò che sarà, ma neppure perdere il senso quotidiano e feriale dell’attesa. Dio ci ha dato le risorse necessarie a soggiogare la terra ma nulla ci appartiene e tutto è in divenire. La speranza è la risposta di Dio a ciò che ancora non vediamo, non abbiamo, non comprendiamo. A discapito del progresso di cui siamo stati artefici, i tempi che viviamo non ci offrono più tranquillità né certezze. Sono tempi per tornare a Dio con tutto il cuore e ricominciare a sperare ciò che non vediamo. Forse ci tornerà più familiare l’invocazione dell’Apocalisse, “Vieni, Signore Gesù!” (Ap 22,20).

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