Tra noi siamo diversi per età e per stato di vita, ma tutti affidiamo totalmente la nostra vita a Dio.
di Rosanna Tabasso
Negli anni settanta una parte consistente del Sermig era composta di famiglie riunite attorno ad Ernesto Olivero e sua moglie Maria. Erano determinate a vivere il Vangelo partendo proprio dal loro essere famiglia. Facevano loro lo slancio e gli ideali del Concilio e sentivano che il Vangelo era per tutti, non solo per gli addetti ai lavori, sacerdoti e religiosi. Sentivano di essere una cellula di Vangelo nel mondo e volevano viverlo da protagoniste. Erano solide, unite al loro interno e tra di loro. Avevano idee e si spendevano per renderle concrete a servizio del regno. La loro convinzione suscitava nei più giovani la ricerca della propria vocazione, della chiamata specifica di ognuno: chi sono e chi voglio essere? Come posso valorizzare i miei talenti? Cosa mi è chiesto per essere a servizio del regno di Dio?
Nel confronto molti di noi hanno trovato il significato del celibato consacrato vissuto in fraternità. Una strada così diversa da quella del matrimonio eppure così simile nella sua radice più profonda. Tra noi la diversità è vita: diversi per età, per stato di vita, sposati, celibi, consacrati che vivono in fraternità, giovani, adulti, diversi per provenienza, per estrazione sociale, eppure uniti perché tutti siamo di Dio. “Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti” (Ef 4,5-6), dice san Paolo e mi piace pensare che lo ricordi anche agli sposati, ai celibi consacrati, ai sacerdoti…
Nella Fraternità cerchiamo di educarci tutti a dare il primato a Dio nella nostra vita, perché Dio non sia secondo a nessuno, né alla moglie né al marito né ai figli, né al lavoro né agli impegni della vita comune; perché qualunque sia la nostra chiamata – il matrimonio, la consacrazione o altre forme di vita – lui sia il centro.
Più ci frequentiamo, famiglie e consacrati, più sperimentiamo che in questo tempo è molto più ciò che ci accomuna che ciò che ci differenzia. Perché “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,62) e anche questo vale per tutti. Così siamo tutti accomunati dalla fatica di essere per il Signore in un mondo che ci vuole tirare da tutt’altra parte. Chi sceglie il Vangelo, sposato, consacrato, sacerdote, sceglie l’amore che si fa chicco di grano, che si lascia sprofondare nella terra, si spacca per dare vita, fino al dono totale di sé per l’altro, per gli altri: per qualcuno vuol dire passare notti di veglia accanto ai figli o fare i turni in fabbrica per mantenere la famiglia; per altri tenere aperto un Arsenale notte e giorno e accogliere i senza famiglia; per alcuni mettersi in discussione e non rassegnarsi alla difficoltà nata nella coppia; per altri affrontare ogni giorno la difficoltà della vita comune, mettersi a nudo e fare verità per affrontare un nodo profondo o una difficoltà di comunicazione con un fratello o con una sorella. Non c’è una strada più facile se il centro in ognuno è Dio e la tensione di tutti è amare come ama lui. Tutti però siamo contaminati dentro da una mentalità mondana che ci ha abituati a confondere il mi piace, lo voglio con l’amore e la fatica, la difficoltà, la sofferenza del vivere insieme come negazione dell’amore. Tutti abbiamo bisogno di un tempo, di un metodo e di maestri che ci aiutino a cambiare ottica, a riprendere la strada del Vangelo e tornare ad essere semplicemente cristiani.
Incontrando le famiglie più giovani della Fraternità penso spesso che Dio ha voluto rivelarsi come amore nel sacramento che unisce un uomo e una donna e ha voluto deporre nel loro amore la trasmissione della vita. La famiglia è anche la radice di ogni vocazione; anche la mia è nata con i miei genitori, è cresciuta nell’amore con cui mi hanno accolta, educata, accompagnata. Ho imparato da loro che Dio è Amore (1Gv 4,8), mi sono lasciata amare e ho imparato a rispondere al suo amore, amando senza cercare contraccambio, senza vincoli, senza limiti, ognuno e tutti.