Uno squarcio su Dio
Pubblicato il 22-09-2024
La notizia non è un “fulmine a ciel sereno” perché la riapertura del capolavoro musivo di San Salvatore in Chora al culto islamico, era stata annunciata fin dal 2020 unitamente a quella dell’universalmente più nota Santa Sofia, due tra i monumenti bizantini più visitati della megalopoli di Istanbul, in Turchia.
L’edificio oggi visibile, che sorge nel quartiere di Edirnekapı (al fondo del Corno d’Oro, in prossimità del Palazzo delle Blacherne, dimora degli imperatori bizantini dal VI sec.), è composto da cinque corpi di fabbrica, risultato di una completa ricostruzione concretizzatasi a più riprese tra il X e il XIV secolo, a seguito della furia iconoclasta (VIII-IX secolo) che rase al suolo la chiesa preesistente, legata a un complesso monastico risalente al VI secolo.
E proprio all’inizio del XIV secolo (fra il 1315 e il 1320) dovrebbero risalire gli affreschi e i mosaici di incredibile fattura riemersi in tutto il loro splendore dopo alcuni anni di restauro patrocinato dall’unesco. Il merito va principalmente a Teodoro Metochites, poeta e letterato che rivestiva l’incarico di logoteta (responsabile del tesoro) sotto l’imperatore Andronico II Paleologo, figlio primogenito di Michele VIII e di Teodora Dukas, nato a Nicea nel 1258 e succeduto al padre nel 1282, che stanziò cospicui fondi per il restauro dell’edificio e la decorazione degli ambienti interni della chiesa e in particolare del doppio nartece che precede una relativamente piccola aula basilicale.
Dopo la conquista islamica di Costantinopoli (1453), la chiesa restò al culto cristiano fino al 1511 quando venne trasformata in moschea sotto il sultano Beyazit II (1481-1512). Alla fine della seconda guerra mondiale l’edificio, i cui straordinari mosaici e gli affreschi del Parecclesion furono coperti di calce ma non distrutti, fu restaurato dagli archeologi del Byzantine Institute of America e del Dumbarton Oaks Center for Byzantine Studies.
Le maestranze lavorarono dal 1948 al 1958 facendo riemergere un patrimonio che si credeva perduto. Benché la totale inutilità pratica di un edificio così piccolo e architettonicamente complesso per la preghiera islamica (in una città dalle migliaia di moschee), facciano pensare a una scelta ideologica nell’alveo di una pesante strumentalizzazione politica della dimensione religiosa, restiamo convinti che poco si giustifichi anche l’interpretazione ideologica dei vinti, che fanno della loro appartenenza religiosa un elemento identitario reazionario, trasformando la protezione dei luoghi di culto e dei monumenti storici in genere come parte di una preservazione nostalgica del passato.
I credenti, indipendentemente dalla loro fede di appartenenza, dovrebbero insorgere di fronte al rischio di essere trasformati in meri custodi di monumenti o luoghi di culto, per difendere lo statuto di testimoni di una fede viva che non è semplice eredità di una storia passata, ma interpella il presente e li trasforma in pietre vive al cuore della storia, che mai potranno essere sequestrate a servizio di semplici fini terreni. Quanto ai capolavori dell’architettura e dell’arte sacra in genere, è il mantenimento di un giusto equilibrio tra conservazione, sostenibilità, sviluppo e difesa del loro carattere universalmente accessibile, che dovrebbe essere assolutamente difeso.
A chi afferma che un luogo di culto trasformato in museo è ferito nella sua essenza, oltre a ricordare che migliaia di capolavori dell’arte che rimangono luoghi di culto non sono necessariamente l’ambito più adatto per l’intimità della vera preghiera, farei notare la necessità di non sottovalutare l’importanza del Bello, perché la bellezza è un nome di Dio e questo per i cristiani come per i musulmani. E la bellezza, in quanto esperienza e non semplice idea, è propedeutica all’incontro spirituale: ci fa sentire che c’è “un di più” dentro le cose, è squarcio aperto sull’oltre, sul mistero, sull’infinito. Ne abbiamo un bisogno tremendo al cuore delle nostre culture consumistiche!
Claudio Monge
Np giugno / luglio 2024