Una-storia-diversa

Pubblicato il 04-09-2020

di Nello Scavo

La liberazione di Silvia Romano ha suscitato, com’era prevedibile, un dibattito altamente politicizzato. Molti tra di noi hanno sperato che almeno in questa circostanza l’Italia smettesse di fare l’Italietta, e che magari ci si facesse qualche domanda in più sul Corno d’Africa. Anni prima non abbiamo voluto apprendere la lezione somala, e ci sarebbe servita impararla almeno quanto sarebbe stato utile agli Usa tenere a mente quella vietnamita.

Come nelle paludi dell’Estremo Oriente anche le sabbie somale raccontano una storia diversa da quella ufficiale. Una lezione che avevo appreso dalla faccia di Hassan, che mi era apparso come il ritratto del suo Paese. Una faccia dove altre rughe avrebbero fatto fatica a trovare posto. Unico vezzo, la barba tinta all’henné, da vero capovillaggio. Hassan, i calzari avrebbe potuto barattarli con un sacco di cereali per sfamare i nove figli avuti dalle due mogli.

Ma Hassan è somalo. E i somali sanno che non serve a niente riempirsi la pancia per un giorno se non sai come andrà a finire il giorno dopo. Se non fossero arrivati gli europei a insegnargli la polvere da sparo, avrebbero continuato a combattere fronteggiandosi con le parole, come avveniva un tempo, quando i capi usavano perfino la poesia per regolare i conti con i vicini più riottosi. Ma quelle sono storie diventate leggenda. E Hassan non aveva tempo per sapere se quello che raccontavano i vecchi erano favole per bambini o storie vere da tramandare. Di sicuro non si sarebbe mai liberato delle scarpe per un sacco di cereali. In cambio dei calzari ebbe del foraggio. E pazienza se ancora per un giorno la sua famiglia non avrebbe avuto da mangiare. Perché quello che contava era tenere in piedi l’unica mucca sopravvissuta. È così che ha salvato i suoi bambini.

«Dipendiamo dalle bestie – diceva Hassan, spalancando la bocca completamente sdentata –. Se loro non mangiano, noi crepiamo: niente latte per i bambini, niente concime per i campi. E poi chi traina l’aratro e il carro per portare il raccolto ai mercati?». Lo diceva in italiano, la lingua dei colonizzatori a lungo insegnata nelle scuole di tutti i dipartimenti. Oramai lo parlano in pochi, ma Hassan era felice di poterlo parlare finalmente con un italiano che non fosse venuto a spiegargli come si sta al mondo. Le putride carcasse di vacche e caprette indicavano la strada verso le fattorie nella regione di Gedo, a ovest di Mogadiscio, tra piste arse dal sole percorse sperando di non incappare in un "posto di blocco" di banditi o guerriglieri al-Shabaab, ammesso che ancora oggi si riesca a distinguere gli uni dagli altri. Quando incontrai per la prima volta gli Shabaab, in Europa li davano ormai per sconfitti. Giorni prima avevo messo piede a Mogadiscio mentre la città veniva spartita ancora una volta tra i signori della guerra locali. Quei warlord che con le loro “tecniche”, i camioncini trasformati in veicoli militari armati di vecchi mitragliatori, avevano costretto alla ritirata il più potente esercito del mondo, compreso il contingente italiano continuamente bersagliato dagli attacchi.
Era l’autunno del 2011 quando gli Shabaab, “i giovani”, avanzavano famelici in ogni città. Quando li incontrai nel sud, al confine con l’Etiopia, se ne stavano a guardare. Consideravano agricoltura e pastorizia un’attività sacra, gradita all’Islam; contrastarla sarebbe stata una bestemmia.

Non era sembrato affatto un sacrilegio invece continuare nell’opera di distruzione della cattedrale di Mogadiscio. Prima di abbandonare il cuore della capitale i miliziani fondamentalisti avevano cannoneggiato, come altri in passato, quel che restava dell’edificio mirando alla bella facciata costruita secondo il modello della cattedrale arabo-normanna di Cefalù. Nonostante il tetto sia precipitato al suolo, e le torri laterali siano state cancellate dalla dinamite, la chiesa è ancora l’edificio più alto della città. Tra le rovine vivono ancora decine di famiglie di sfollati interni, fuggiti dalle periferie senza legge né cibo, per cercare rifugio dove almeno più facilmente possono arrivare gli aiuti umanitari delle agenzie Onu. Sono tutti profughi musulmani, ma nessuno ha voluto accamparsi all’interno delle mura ancora forti dell’edificio. Qualcuno avrebbe voluto trasformare l’abside in una latrina, ma le donne avevano protestato indicando l’immagine di Maria, l’unica a non essere stata decapitata dal tiro a segno dei cecchini.

Nei giorni in cui molti parlavano di Silvia Romano alludendo alla “sottomissione” delle donne somale, ho riletto gli appunti. E mi sono vergognato per chi ancora una volta ha usato le donne e la Somalia per piegare la narrazione alle convenienze.


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Per la categoria dedicata al tema della libertà di stampa e di informazione, il Premio è stato attribuito al Dott. Nello Scavo, alla luce del suo impegno giornalistico in tema di diritti umani, con particolare riferimento alle questioni della marginalità e dello sfruttamento dell’immigrazione, e del suo giornalismo d’inchiesta sul traffico degli esseri umani, sulle rotte degli scafisti e il loro profilo criminale».
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Nello Scavo, inviato di Avvenire, Reporter internazionale, cronista giudiziario, corrispondente di guerra, collabora con diverse testate estere. Le sue inchieste sono state rilanciate dalle principali testate del mondo, fra cui The New York Times, The Washington Post, The Independent, The Guardian, Le Monde, Huffington Post, La Croix, Bbc, Cnn, Clarin, La Nacion, El Pais, El Mundo e altri.

Nello Scavo
NP giugno / luglio 2020

 

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