Una perversione naturale
Pubblicato il 12-02-2025
O perché si è stati l’ultimo dei fratelli esposto alla tirannide dei maggiori, o il primo su cui si concentravano le aspettative di mamma e papà, o quello di mezzo accolto con minor stupore. O magari perché una malattia o disabilità o svantaggio sociale o dramma infantile ci ha messi all’angolo: qualsiasi motivo psicologico è buono per motivare il dolore della propria insignificanza e l’esigenza imperiosa di essere riconosciuti. Ma è proprio l’accoglienza della propria insignificanza l’inizio (e solo l’inizio) di una vita interiore in profondità. I nostri maestri spirituali, i Padri, non facevano tanti giri di parole (giri a vuoto intorno al nostro ego): quel sentimento lì, quel bisogno doloroso lì si chiama vanagloria. Fine. «Non è la gloria che è un male, bensì la vanagloria», dice san Massimo. Anzi non un male qualsiasi ma «una forma di follia», aggiunge Crisostomo. La follia di ambire a lodi «secondo la carne» è la perversione dell’«amore alla gloria del cielo» (Giovanni Climaco). Ma non è umano desiderare di essere riconosciuti? Ciò che noi riteniamo “umano”, “naturale”, se lo viviamo al “naturale” cioè secondo l’istinto, nella vita spirituale – se è quella che vogliamo vivere – è perversione. I sentimenti che noi proviamo “al naturale” ci sono stati messi dentro per essere trasformati e diventare apertura alla vita eterna, redenzione, nostra risurrezione.
È una questione di obiettivi, dice Climaco. Qual è l’obiettivo che ci poniamo? Con che intenzione ci mettiamo a “fare il bene”? Mettiamo che sia per somigliare almeno un po' a Chi ha detto: «Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati» (Mt 6,2), perché quell’ammirazione diventerebbe la vostra unica ricompensa. Orizzontale, terrena quindi mortale, anzi mortifera. Sareste come «quelli che attingono acqua dalle fontane e senza accorgersene tirano fuori anche una rana…perché spesso alla virtù che pratichiamo mescoliamo il vizio». Soprattutto se sono virtù «connesse con l’umiltà, la vanagloria si insinua dovunque come alimento o meglio come nocumento» (Scala XXVI, 154).
Peggio mi sento se pretendiamo che il nostro “praticare il bene” sotto gli occhi di tutti venga riconosciuto come la bandiera della nostra fede. Ma come? “Facciamo il bene” per Cristo e in Cristo e nessuno se ne accorge? Mettiamo che ci siamo impegnati – con buona volontà – a fare “evangelizzazione” per somigliare a Chi ha detto: «Guai a voi, quando tutti gli uomini diranno bene di voi» (Lc 6,26).
Pretendere di essere riconosciuti è allora la vanagloria peggiore. Il primo rimedio a questo tipo di vanagloria è dare il nome alla nostra vera intenzione. Cioè guardarsi dentro senza pietà, scovare il serpente che ama arrotolarsi nell’angolo più buio per non essere scoperto, e nominarlo: già chiamarlo “vanagloria” lo svuota del veleno. Dice Climaco nella sua Scala: c’è un solo modo per combattere simile vanagloria, silenzio e nascondimento. Ma «se ti trovi in mezzo al mondo fai quello che ti arreca disonore». La superbia «guarisce con il cercare condizioni disonorevoli». L’inizio della vittoria è «l’amore per le umiliazioni». Se vuoi essere conosciuto da Dio, cerca di essere disprezzato. Non ce la fai? Almeno ignorato, allora: l’umiltà è la libertà che Gesù ci offre. Se la trova, autentica, sincera, nel nostro cuore, «Colui che da sempre è invisibile» interviene ad aiutarci a essere nudi. Nudi e poveri come Cristo nudo e povero. Allora sì, davvero in Lui.
Flaminia Morandi
NP novembre 2024