Un triste gioco dell'oca
Pubblicato il 18-01-2025
La piaga della guerra porta sempre con sé quella della fame.
Il mondo pare essersi scordato di questa elementare verità e il numero crescente di conflitti, insieme agli effetti della pandemia e a quelli dei cambiamenti climatici, ci hanno fatto perdere il decennio 2020-30 nella lotta alla povertà. Nel mondo sono attivi ora 56 conflitti, il numero più alto mai registrato dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Molti si trovano soprattutto nei Paesi più vulnerabili dell’Africa subsahariana, dal Corno d'Africa al Sudan alla Libia, per arrivare al terrorismo jihadista in Africa occidentale, alla Repubblica Centrafricana e a quella Democratica del Congo dilaniata dai conflitti per le terre rare. Gli ultimi dati della Banca mondiale presi dal report Povertà, prosperità e pianeta dicono che l’obiettivo globale di eliminare entro il 2030 la miseria estrema – equivalente a un reddito pro capite di 2,15 dollari al giorno – è sempre più fuori portata. Al ritmo attuale ci vorrebbero infatti oltre tre decenni per raggiungere l’obiettivo. Nel frattempo, non dimentichiamolo almeno noi, quasi 700 milioni di persone nel mondo – l’8,5 per cento della popolazione globale – sopravvive con meno di quella cifra. Siamo in una fase di stagnazione economica globale mentre molti Paesi vulnerabili, in Africa ma non solo, vedono ingigantirsi il loro debito e, dopo essere stati sfruttati dai Paesi occidentali, si sono rivolti ai cinesi e ai Paesi arabi che, però, non si sono dimostrati molto più generosi.
Cosa significa questo arretramento generale in concreto? Che, mentre gli appassionati di geopolitica si divertono con il nuovo risiko africano ridisegnando le alleanze, per decine di milioni di persone si è tornati al punto di partenza, come nel gioco dell'oca. Più povertà significa meno bambini a scuola perché le famiglie non possono permettersi di mandarli a studiare e rinunciare al loro contributo nei campi o nei banchi di un mercato o in casa ad accudire i fratellini e le sorelline. Più povertà significa meno cure, il ritorno di epidemie che parevano debellate. Più povertà significa meno commercio e impresa e più economia di sussistenza.
Significa più migrazione interna dalle aree rurali alle città, in favelas inumane dove la miseria più abbruttente genera enormi sofferenze. Le altre guerre più mediatiche inoltre drenano gli aiuti umanitari dall'Africa e dai suoi conflitti e i costi alle stelle di fertilizzanti e combustibili in economie basate sulla agricoltura provocano prezzi raddoppiati dei generi alimentari. Il risultato è che i due terzi della povertà estrema riguardano la popolazione sub-sahariana. Anche i finanziamenti internazionali per la mitigazione dei cambiamenti climatici latitano: in questi Paesi sono inferiori di 5-10 volte rispetto al livello ritenuto indispensabile.
Eppure, nonostante il vento contrario che spira dal 2020, la speranza non ha abbandonato il continente africano, ricco di risorse, di giovani e di idee. Il segretario generale delle Nazioni unite ha interpretato questo spirito definendolo proprio "continente di speranza" che affronta sfide profondamente radicate nella sua storia ed esacerbate da conflitti, mutamenti climatici e povertà persistente.
Gli italiani non sono così indifferenti alle sorti dell'Africa.
Un sondaggio ipsos per amref dice che per la maggioranza dell'opinione pubblica l'Africa è uno snodo cruciale e a sostenerlo sono soprattutto gli ultrasessantenni.
I quali sono convinti che vadano intensificati gli aiuti economici e umanitari e soprattutto che l’Italia debba impegnarsi a formare la classe dirigenti dei Paesi africani stessi in modo da dar loro una competenza solida per guidare il continente verso uno sviluppo sostenibile.
Anche qui la società civile e l'opinione pubblica dimostrano di essere più avanti della politica che si ostina a non ascoltare.
Paolo Lambruschi
NP novembre 2024