Un prete libero
Pubblicato il 06-06-2025
«Senza libertà la Chiesa non esiste meglio che l’uomo senz’aria di cui respiri», scriveva nel 1832 Antonio Rosmini. Nel linguaggio ottocentesco è un’affermazione normalissima: la libertà è essenziale alla vita della Chiesa. Invece, insieme alle altre contenute nel suo scritto Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, era valsa a Rosmini una nota della Congregazione dell’Indice che dichiarava i suoi scritti «criticabili e censurabili». Dopo la sua morte (tra l’altro sospetta di avvelenamento), la stessa Congregazione si affretterà a «condannare, riprovare e proscrivere» le sue opere. In quegli anni esisteva ancora lo Stato della Chiesa e il governo temporale, di cui Rosmini parlava come di una “sciagura” di cui liberarsi prima possibile per essere una comunità che porta «scritto sul suo petto beati pauperes». Chi era Antonio Rosmini? Un uomo libero perché grande spirituale, vissuto poveramente, con l’immensa carità di mettere a disposizione la sua vastissima cultura per fondare una filosofia cristiana capace di rispondere al secolarismo e alla perdita dei “valori” che intravedeva. In quanto libero, scomodo, fondatore di una società di preti che con la loro vita specchiata e severa formazione dovevano rispondere concretamente alla decadenza del clero. Un riformatore coraggioso, come nella Chiesa nei secoli ce ne sono stati tanti, tutti in vario modo messi da parte, irrisi, condannati, salvo poi essere riabilitati decenni o secoli dopo, quando era divenuta evidente la giustezza delle loro affermazioni.
Il nucleo delle Cinque piaghe di Rosmini è appunto la libertà, parola inseparabile dal Vangelo di Cristo. Libertà dal potere mondano. Le cinque piaghe sul corpo di Gesù crocifisso, mani, piedi, costato, lo fanno pensare alla Chiesa. La prima piaga è «la divisione del popolo dal clero nel pubblico culto»: i fedeli laici ridotti in stato di passività e soggezione, negata loro consapevolezza e partecipazione, logiche clericali autoritarie ed escludenti. Ma clero e popolo, «tutti sono liberi in Gesù Cristo». La seconda piaga, «l’insufficiente educazione del clero», l’annuncio del Vangelo passato in secondo piano rispetto agli impegni di governo e di amministrazione, le case dei vescovi convertite in «corti principesche rigurgitanti di militari e di cortigiani». La terza piaga, la «disunione dei vescovi», l’accaparramento della dignità episcopale garanzia di rendite. La quarta piaga la nomina dei vescovi «abbandonata al potere laicale», quando il popolo ha diritto di avere «pastori a lui ben accetti» affinché ci sia tra vescovo e fedeli una collaborazione fatta di ascolto, consultazione continua, ma libera dallo «spirito di adulazione». La quinta piaga, la perdita del senso della povertà, l’uso dei beni della Chiesa per finalità diverse dalle uniche che devono starle a cuore: il sostentamento del clero e l’aiuto ai poveri. Rosmini arriva – siamo nel 1832 – a toccare senza mezzi termini la questione scottante dell’esenzione della Chiesa dalle imposte: quando si tratta di beni eccedenti i bisogni (poveri e clero), è giusto che la Chiesa paghi le tasse come tutti gli altri. Quando la Chiesa è carica di trofei, «allora solo ella è impotente». Di nulla ha bisogno la Chiesa se non «la piena libertà» dai favori economici e dai privilegi: «È scoccata l’ora in cui impoverire la Chiesa è un salvarla», scrive.
Ma al duro giudizio della Congregazione dell’Indice Rosmini obbedisce docilmente. Muore nel 1855 con la serenità e il distacco che solo una vita di preghiera e di amore disinteressato per Gesù possono dare. Solo nel 2007 Benedetto XVI dichiarerà beato questo prete scomodo perché libero.
Flaminia Morandi
NP febbraio 2025