Un genocidio non riconosciuto

Pubblicato il 11-05-2025

di Paolo Lambruschi

Il tempo della speranza è finito in Tigrai. Ce n’era molta nel novembre 2022 quando venne siglato l’accordo di pace a Pretoria, in Sudafrica, tra forze regionali tigrine e l’esercito federale etiope. Ma, nonostante le cessazioni delle ostilità dopo due anni di massacri e stupri etnici e 600mila morti, la situazione umanitaria nell’indifferenza generale è catastrofica.

Oggi un milione di sfollati su sette milioni di abitanti della regione autonoma etiope settentrionale rimane ancora fuori dalle proprie case. L’accordo, infatti, non è stato accettato dagli alleati del governo federale in quel conflitto, eritrei e truppe regionali amhara che continuano a occupare rispettivamente le province settentrionali e il Tigrai occidentale compiendo atti di pulizia etnica. L’eredità della guerra più sanguinosa di questo primo quarto di secolo.

Oltre all’indebitamento per comprare le armi che ha fatto dichiarare fallimento all’Etiopia e un’inflazione al 30% che ha fatto schizzare alle stelle i prezzi dei generi alimentari in tutto il Paese.

Per dare voce al proprio dramma, migliaia di sfollati per tre giorni a metà gennaio a Macallè, capoluogo della regione, hanno protestato per le strade gridando «Yakl», basta. Molti sfollati provengono dal Western Tigra. L’accusa lanciata da diverse organizzazioni umanitarie internazionali – l’ultima è stata Human rights watch nel suo report mondiale pubblicato il 15 gennaio – è di aver praticato e continuare a praticare stupri di guerra e pulizia etnica contro i tigrini. Chi dal Western Tigrai è dovuto fuggire lasciando case, animali e terreni chiede disperatamente di rientrare per lavorare la terra in una regione a prevalenza agricola. Molti vivono nei centri per sfollati dove mancano cibo, assistenza medica e le condizioni igienico sanitarie sono estremamente precarie.

Accanto all’urlo degli sfollati, cerca di squarciare il silenzio sulla tragedia del Tigrai il coraggioso vescovo dell’eparchia cattolica di Adigrat, Tesfaselassie Medhin, titolare della diocesi cattolica che comprende tutta la regione. Il prelato ha ricordato la situazione dei primi due anni di guerra, in cui si è ritrovato nel mezzo di un blackout comunicativo ed energetico accuratamente pianificato mentre attorno a sé vedeva scene da film dell’orrore. E ha denunciato al settimanale irlandese Irish Catholic che «la mia diocesi, che comprende tutta la regione del Tigrai e parte dell’Afar (la Dancalia, ndr), è inaccessibile per un terzo. È occupata dalle forze armate eritree, presenti dall’inizio del conflitto e mai rientrate nel loro Paese, e dalle forze della vicina regione di Amhara. Ci sono ancora centinaia di migliaia di sfollati che, a due anni di distanza, non possono ancora tornare nelle loro case. A tutto questo si aggiunge la drammatica situazione dei nostri bambini e ragazzi: al momento sono ancora 515 le scuole che non sono state riaperte, tra cui le nostre scuole cattoliche. Una generazione cresce da quattro anni senza istruzione. Stiamo perdendo migliaia di giovani che stanno migrando in massa, un altro dei tanti disastri creati dalla guerra che va ad aumentare il traffico di esseri umani e la catena della povertà».

Intanto nella regione dimenticata dalla comunità internazionale che non riesce a trovare pace si stanno moltiplicando i sequestri di persona compiuti da bande di ex militari e ufficiali che rapiscono soprattutto i profughi eritrei. Se quello in Sudan è stato dichiarato un genocidio dall’amministrazione uscente americana di Joe Biden, affermano i tigrini, allora un genocidio da quattro anni è in atto anche in Tigrai e nessuno ha il coraggio di dirlo. Tutti nel Corno d’Africa aspettano i primi passi a Washington della nuova amministrazione Trump.


Paolo Lambruschi
NP febbraio 2025

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