TANZANIA: Un’isola di pace

Pubblicato il 31-08-2009

di bruno


Alfred Maluma è vescovo di una delle 30 diocesi della Tanzania, quella di Njombe - al confine con il Malawi -: ca. 20.000 kmq, 700.000 abitanti di cui 250.000 adulti.

a cura della redazione
 Qual è il significato di essere Chiesa in Africa?
È una risposta all'invito di Cristo a partecipare al bene che Dio vuole per tutti i suoi figli. Sentendoci appartenere ad un solo Padre, noi come famiglia di Dio siamo fratelli e sorelle. Noi sappiamo che la Chiesa cattolica è un una chiesa universale dove, come dice san Paolo, non c'è più il giudeo, il greco, perché apparteniamo tutti a una famiglia, italiani, greci, arabi, africani, indiani, tutti. Riteniamo che tale diversità di culture, etnie, colori siano una ricchezza e una grande opportunità anche per costruire la pace, perché possiamo vivere l'esperienza dei nostri fratelli e sorelle di un’altra parte del mondo e, da parte nostra, condividere quello che abbiamo. L'Africa ha beni da donare tipicamente africani, così come gli altri continenti; ma anche ogni individuo ha i suoi doni da condividere. Tutto quanto nel mondo è una ricchezza, la cosa più importante è come condividiamo questi doni, dati tutti da Dio nostro Padre per fare il mondo bello: tanto bello da vivere, da permetterci di riscoprire il segreto dell'amore di Dio, che ha voluto condividere Se stesso, il Suo amore, con la realtà del mondo.
Appartenere alla Chiesa, sentirsi Chiesa, è un'apertura ad una ricchezza, ad un bene che dobbiamo sempre migliorare, cercando di fare il possibile perché si viva questa realtà in una maniera sempre più naturale.

Qual è la situazione sociale della Tanzania, Paese che, fortunatamente, sembra non essere coinvolto in guerre?
Qualcuno dice che la Tanzania è un'isola di pace perché da anni i problemi li hanno i paesi vicini, Uganda, Congo, Rwanda, Burundi, tempo fa Mozambico. Noi abbiamo accolto sempre profughi da questi Paesi e per i profughi il venire in Tanzania è sempre stato anche occasione per imparare a vivere in pace.
Per esempio, il lungo cammino di dialogo che adesso sta dando frutti in Burundi è anche dovuto alla Tanzania e al nostro presidente, perché la tradizione di pace dei tanzaniani ha acquisito autorevolezza e fiducia presso i vicini.
Sin dall’inizio, appena il Paese è nato come nazione, la Tanzania ha cercato di coltivare la cultura della pace, è riuscita, a differenza di tanti altri Paesi africani, a mantenere la libertà con il dialogo e non con le armi. Io ero piccolo, però i miei genitori e miei parenti mi hanno detto che nel giorno dell'indipendenza chi aveva responsabilità politiche aveva sottolineato: “Vi chiedo di non far cadere una goccia di sangue dei colonizzatori, sono anche loro figli di Dio”, ed è sempre stato così.
Il presidente ha lavorato molto per convincere altri Stati a privilegiare il dialogo per coltivare la cultura di pace e la formazione dei dirigenti politici. C’è da ricordare che tanti tra i primi dirigenti politici, quelli che ci hanno fatto uscire dalla colonizzazione e guidato gli inizi della nazione – e questo vale un po’ per tutta l’Africa - sono persone che si sono formate nelle scuole e nelle missioni della Chiesa, dove hanno combinato i valori umani tradizionali e i valori cristiani. In questo senso sono usciti politici ben preparati culturalmente. Julius Nyerere, il nostro primo presidente, ne è una testimonianza tale che è iniziato il processo per la sua beatificazione. È molto raro che avvenga per un politico, perché sempre la politica si presenta con una cosa brutta, più o meno sporca.

Il contributo della Chiesa è molto importante perché, tornando alla pace, non è “piovuta dall’alto”: anche la pioggia, nel ciclo della natura, scende solo se le foreste vengono protette. La Chiesa ha sempre cercato di promuovere la cultura della convivenza e della condivisione: è possibile lavorare insieme anche se non siamo d’accordo su tutto. La Chiesa cattolica e le altre Chiese sono state capaci di fare questo perché hanno cercato di interessarsi non soltanto della religione ma anche del bene della persona.
Ho detto prima che sentirsi Chiesa, appartenere alla Chiesa, vuol dire condividere; quindi, attività tese allo sviluppo promuovono anche la cultura di pace, perché la cultura di pace viene realizzata dove l’uno si interessa dell'altro.

Qual è la situazione di convivenza tra le diverse culture?
La convivenza tra i tanzaniani fa parte della loro cultura di pace e fortunatamente noi in Tanzania non abbiamo problemi rilevanti. Per esempio, alcuni miei parenti sono anglicani, altri luterani, altri della religione tradizionale, altri ancora cattolici. La Chiesa cattolica lavora molto bene con la comunità protestante e abbiamo una sola voce di fronte al governo, rispetto ai problemi che riguardano i servizi sociali, sanitari, educativi. Abbiamo leaders preparati. Adesso ci confrontiamo anche con i musulmani, quindi il dialogo c'è e va avanti. Delle difficoltà possono naturalmente sorgere nella vita quotidiana: viviamo nella convivenza, ma come ho detto prima bisogna coltivare, bisogna migliorare. Come per la persona la salute non è sempre garantita e va curata, così per la pace e la convivenza, perché non si “ammalino”. Noi facciamo e curiamo la pace ogni giorno, e ogni giorno lavoriamo per essa.

 Come ritenete sia giusto intervenire sulle situazioni di povertà?
La solidarietà è molto importante. Oggi si parla di globalizzazione e il mondo è diventato un piccolo villaggio, quindi i Paesi sviluppati, come l'Italia, devono conoscere e capire molto bene la situazione di povertà di Paesi come quelli dell'Africa; gli africani stessi devono a loro volta darsi da fare e capire che i problemi non si risolvono delegandoli a qualcuno, ma lavorando insieme.
Noi puntiamo molto sulla formazione e sulla sanità. Ci sono delle iniziative in questi campi, anche se c’è chi dice che non sono un investimento giusto dal punto di vista economico. Però una persona, anche se sana, senza l'educazione non sa come muoversi. Fa parte della tradizione della Chiesa cattolica sostenere questi servizi e la Chiesa di Njombe ha fatto molto per contribuire.
Le collaborazioni, come quella con il Sermig ad esempio, sono importanti perché c’è condivisione non soltanto a livello di aiuti, ma anche a livello di esperienza, di idee, di nuove iniziative. Oggi diventa indispensabile globalizzare la solidarietà fatta di condivisione. Bisogna capire molto bene le situazioni e come muoversi, quali i progetti e le iniziative da intraprendere; è importante confrontarsi a fondo, avviare una collaborazione stretta. Se uno vede qualcuno che è bisognoso e lo aiuta dandogli un pezzo di pane, non risolve il problema, che persisterà. Finché non si capisce la situazione e non si risolve il problema, è logico intervenire con aiuti immediati di emergenza, ma mai il dar aiuti deve essere considerato l’obiettivo finale della solidarietà e della condivisione.
Una collaborazione anche a livello di comunicazione per capirsi meglio l’un l'altro, scambiarsi esperienze e idee, in modo da arricchirsi reciprocamente, permette anche di costruire un mondo più aperto alla cultura della convivenza: quando io capisco qualcuno so come rispettarlo e, nonostante i miei limiti e le differenze, imparo come comportarmi con lei, con lui, con te, con un altro. Se ciò è ben fatto, allora la vita diventa più bella. Come la vogliamo tutti.
a cura della redazione
Sulla Tanzania vedi anche:
TANZANIA: gina lako nani?

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