Sud Sudan, guerra e povertà

Pubblicato il 11-03-2017

di Mauro Palombo

di Mauro Palombo - “Quando gli elefanti combattono, è l’erba ad essere calpestata”. Recita così un vecchio proverbio africano che ben si applica anche al giovane e disastrato Sud Sudan, un territorio il doppio dell’Italia con 12 milioni di abitanti e 5 milioni di rifugiati all’interno e fuori dal Paese. Condizioni estreme di diffusa miseria, mortalità infantile, speranza di vita precaria e molto faticosa. La scissione dal Sudan nel 2011 è avvenuta dopo una quarantina d’anni di tragico conflitto in cui le popolazioni del sud hanno tentato di affrancarsi dal dominio di quelle arabe del nord. Dopo tanta sofferenza, con la nascita del nuovo Paese, poverissimo di infrastrutture e di ogni altra cosa, la speranza in una nuova storia è grande. Ma due signori della guerra continuano a fronteggiarsi per conquistare da soli il potere. Fino ad una vera guerra durata dal 2013 al 2015.

Quando un conflitto inizia, semina profondamente le condizioni per continuare. Questa estate, proprio nella ricorrenza del quinto anniversario dell’indipendenza, la violenza è riesplosa in una mini-guerra tra le strade della capitale. E si trascina in diversi luoghi, nell’insicurezza.

Una finestra su questa realtà ci viene dall’amico fratel Jim Comino, missionario salesiano di lungo corso che, come tanti altri missionari e responsabili della Chiesa in Sudan ha difeso la gente in ogni modo nel corso di anni di guerra per l’indipendenza. Negli anni abbiamo appoggiato alcuni progetti e inviato carichi di aiuti umanitari e, per la seconda volta quest’anno, contribuiamo con un carico: materiale scolastico e strumenti di sviluppo – dalle macchine da cucire, a utensili, e strumenti agricoli – che giungerà quanto prima possibile a Juba, a fratel Jim il cui sforzo tenace e paziente per estirpare le radici della guerra passa attraverso la promozione, la formazione, lo sviluppo. In una delle sue comunicazioni da Juba scrive: “In luglio, la guerra è scoppiata fragorosamente, lasciando morti sul campo e profughi sulle strade. Non tengono i presunti accordi tra il presidente Salva Kiir con l’etnia maggioritaria Dinka e il suo vice Riek Machar con quella minoritaria Nuer. In una sola notte duecento morti, mentre sabato e domenica nel buio della capitale Juba si sentivano gli scoppi di cannone e delle mitraglie e non il suono delle campane.

La paura ha portato più gente nelle chiese a pregare per la pace. I salesiani hanno messo a disposizione la scuola e anche la chiesa per oltre 5mila persone che cercano di aiutarsi a vicenda. Con l’aiuto della Provvidenza c’è spazio (fino a quando?) anche per un pasto al giorno. Si presentano stremati dopo nove ore di cammino per coprire, senza cibo e acqua, molti chilometri. Nessuno è escluso. Genitori che perdono i figli durante la fuga, bambini e anziani che camminano sperando di vedere una nuova alba di speranza: la popolazione più matura si auspica di terminare la propria corsa in un tempo di pace. La comunità cristiana – oltre metà della gente – si affida a Dio, che è grande; i bambini, nella loro semplicità, chiedono caramelle. Lo scontro fratricida sta, però, facendo emergere i lati più oscuri dell’umanità. Lo sconforto è tanto anche da parte della Chiesa che ha condannato senza appello la condotta dei leader politici, i veri responsabili di questo grande ed ennesimo sterminio.

Nei giorni successivi: aeroporto chiuso e strade bloccate, sparatorie, cannonate, raffiche e pallottole, che hanno colpito anche i luoghi salesiani. In quelle ore la recita corale del rosario è stata antidoto alla paura: al termine del quarto rosario, le sparatorie sono diminuite. Forse avevano finito le munizioni? Un miracolo? Non lo so, ma in questi 23 anni di esperienza in Sud Sudan non è la prima volta che la Madonna si rende presente e tangibile.

La popolazione è stanca. Abbiamo bisogno di parole forti e di un aiuto concreto da parte della comunità internazionale. C’è una crisi umanitaria già in atto destinata a peggiorare. Vi chiedo una preghiera per questo povero popolo martoriato. La gente non vuole tornare nelle proprie capanne, alcuni sono andati e hanno trovato la capanna bruciata e tutto derubato, e sono rimasti solo con i vestiti che hanno addosso. Dobbiamo pregare e affidarci al buon Dio perché questo scontro fratricida cessi al più presto.

La guerra, che sta devastando il povero Sud Sudan, costringe la popolazione all’esodo forzato nella foresta o nelle nazioni vicine. La terra è fertile, il clima è buono, c’è acqua. Ma oggi è poca la terra coltivata; la gente non è abituata a lavorare il terreno perché molti di loro sono vissuti e cresciuti nei campi profughi. I ribelli impediscono di lavorare la terra per produrre da mangiare e per mettere in atto una specie di pulizia etnica. Davanti a questi enormi problemi, la priorità è tornare alla terra, formare alla sua coltivazione. Con l’educazione e lo sviluppo agricolo si possono chiudere le lotte tribali. Partire dall’aiuto per cercare l’autosufficienza e crescere nella propria terra. Solo così fermeremo la corsa all’emigrazione in Europa. La Chiesa vuole realizzare cento scuole primarie per 50mila bambini del Sud Sudan. Stiamo andando avanti, per parecchi bambini c’è già una scuola, anche se sembrava un progetto irreale”.

Associazione Sermig Re.Te. per lo Sviluppo
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Rubrica di Nuovo Progetto

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