Speranza nell'abisso

Pubblicato il 25-12-2018

di Matteo Spicuglia

di Matteo Spicuglia - Impossibile definirla, in fondo capirla. L’orrore della guerra puoi solo intuirlo. Come l’umanità piegata a logiche assurde, umiliata. Un’umanità che puzza perché non c’è più acqua, disperata perché perde figli e fratelli, rassegnata perché nel baratro è difficilissimo immaginare un futuro. Padre Ibrahim Alsabagh lo sa bene. Parroco della chiesa di San Francesco di Aleppo ha vissuto sulla sua pelle le atrocità della guerra in Siria. Guerra civile, di fazioni, di città divise in due. Lui, frate francescano siriano, viveva su quella che fino al dicembre del 2016 era linea di confine. Sotto le bombe dei ribelli e dei governativi. La paura di morire che camminava insieme alla speranza. Speranza che osa l’insperabile, che non si fa fermare. Le case venivano bombardate? La speranza le riparava con piccole squadre di architetti, ingegneri e muratori. Le zone industriali dell’ex capitale economica della Siria non esistono più? La speranza riparte dai microprogetti di lavoro finanziati dalla Caritas. Le strade e le macerie di Aleppo sono avvolte di grigio? La speranza ha riportato i colori con centinaia di giovani che si sono improvvisati writers. Piccoli gesti, piccole gocce in un mare in cui nuotano tutti, anche chi continua ad alimentare la paura.

Padre Ibrahim, avrebbe mai immaginato di affrontare un conflitto?

No, la Siria era un Paese stabile e io fino al 2014 vivevo a Roma per motivi di studio. In quell’anno i miei superiori mi chiesero se me la fossi sentita di andare ad Aleppo. C’era bisogno di stare vicino alla gente, in un momento difficilissimo.

Erano i mesi dell’assedio di Aleppo, uno degli eventi bellici più gravi degli ultimi anni. Assedio vecchia maniera: far cadere le roccaforti nemiche tagliando cibo e acqua…

Proprio così. La nostra chiesa era a pochi metri dalla linea di divisione. L’assedio è stato terribile. Morti, fame, mancanza di cure, niente acqua. Non puoi bere, né lavarti. Una delle prime cose che fecero fu quella di far saltare in aria l’acquedotto. Per fortuna, noi avevamo un pozzo nel cortile del convento. Abbiamo deciso di metterlo a disposizione di tutti, senza distinzioni. È stato un modo per condividere la sofferenza. Perché come dico sempre, tutti abbiamo sofferto: cristiani e musulmani.

Ha mai avuto paura?

Prima di partire, dicevo sempre di non avere paura della morte. Ho fede e lo penso ancora. Ma umanamente la paura arriva. Ricordo quando un missile centrò la cupola della nostra chiesa durante la messa, al momento della comunione. La chiesa era affollatissima. La terra tremava come in un terremoto. Ricordo la polvere, la gente che scappava, il sangue e io ancora con la pisside in mano. Riuscimmo a non farci prendere dal panico, a stare vicini, ma per due settimane non smisi di tremare. Il mio corpo parlava. Questa umanità la vivi soprattutto quando vedi la morte degli altri, la sofferenza, il dolore innocente. Ogni persona percorre una via crucis, ha pesi sul cuore.

È stato così anche per lei?

Certo, ma ha prevalso sempre uno spirito di resistenza. Ti senti come una madre davanti a un figlio che ha bisogno di tutto. Vivi momenti difficili, soffri profondamente, ma devi dimenticare il tuo dolore e andare al dunque.

In che senso?

Andare al dunque significa rispondere al male senza pensare ai colpevoli. Puoi farlo dopo, ma nel mentre non hai il tempo. Devi essere molto concreto. Dire no all’odio significa insegnare il perdono. Dire no alla sete, significa portare acqua. Dire no alla povertà, significa dare il cibo agli affamati. Dire no alla morte causata da malattie banali, significa fare di tutto per trovare le medicine. Dire no alla divisione, significa seminare la pace e vivere con i musulmani lo stesso destino. Dire no alla guerra, significa creare tantissimi ponti di pace, senza mai fermarsi. Potrei fare mille esempi. Tutti i progetti di speranza nati durante e dopo l’assedio sono partiti da queste convinzioni.

Come vede il futuro del suo Paese?

Come cristiano mi interessa l’attimo che ho davanti, testimoniare per quello che posso l’amore di Dio e rispondere così al dolore della gente. Il resto, purtroppo, è legato a giochi molto più grandi. Al momento, il discorso della ricostruzione è rimandato perché la Siria è ancora in guerra. Ci sono tanti interessi in campo: questioni geopolitiche, il mercato delle armi, la corsa allo sfruttamento delle risorse. Credo che servirà ancora molto tempo perché le cose cambino.

Cosa ha imparato dall’esperienza di questi anni?

Quando sono partito, ero pieno di schemi mentali e intellettuali. Partivo con le cose che avevo studiato. Come dire? Sentivo di avere la fermezza di un padre. La guerra invece, ha fatto emergere in me un lato che non pensavo di avere: la tenerezza di una madre. Proprio così. Oggi posso dire che Dio, mandandomi nell’abisso di Aleppo, mi ha permesso di essere tenero, per riflettere la sua tenerezza.

da Sapere

I costi della guerra in Siria Oltre 350mila vittime Stime dell'Onu e delle Ong dichiarano che i morti dall'inizio della guerra oscillano tra i 350mila e il mezzo milione, oltre a più di un milione di feriti. 5,4 milioni di rifugiati Dall'inizio del conflitto più di 5,4 milioni di siriani sono fuggiti all'estero, molti dei quali cercano rifugio nei Paesi limitrofi, secondo l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. La Turchia ospita il maggior numero di siriani registrati dall'Unhcr, oltre 3,3 milioni. In Libano quasi un milione di rifugiati siriani vivono senza risorse finanziarie. Seguono la Giordania (657mila registrati dall'Unhcr, ma 1,3 milioni secondo le autorità), l'Iraq (oltre 246mila) e l'Egitto (126mila siriani). Centinaia di migliaia di siriani si sono riversati in Europa, inclusa l'Italia.


fonte: agi.it

Matteo Spicuglia
NPFocus
Rubrica di NUOVO PROGETTO

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