RISCOPRIAMO L’ECONOMIA CIVILE

Pubblicato il 28-03-2013

di Simone Baroncia

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C’è bisogno di responsabilità anche nell’economia, il cui compito è, in ultima analisi, contribuire alla serenità delle generazioni presenti e future.

intervista di Simone Baroncia a Luigino Bruni

Quali rapporti ci sono tra l’agape, l’economia ed il bene comune?
La tradizione italiana della pubblica felicità concepiva l’economia in vista del bene comune. Il bene pubblico, che corrisponde all’inglese common (bene collettivo) è un rapporto diretto tra gli individui e il bene consumato. Il bene comune è esattamente il contrario: è un rapporto diretto tra persone, mediato dall’uso dei beni in comune. Nella Dottrina Sociale della Chiesa il bene comune è inteso come la “dimensione sociale e comunitaria del bene morale”, e per questo è “indivisibile perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo”, come afferma il n. 164 del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa. L’agape, una forma di amore che fa la sua comparsa con il cristianesimo, nella definizione moderna di bene comune è stata accantonata, relegandola, da una parte, alla sfera privata della famiglia; dall’altra è stata affidata allo Stato attraverso il welfare state, oppure, nella cultura anglosassone, alla filantropia. Due forme pubbliche che hanno raccolto solo una parte della ricchezza della dimensione dell’amore agapico. Una sfida della civiltà è quella di riportare la forma dell’agape al centro della vita della città.

terra-tra-le-mani Ma la storia economica può essere letta in versione agapica?
La storia dell’economia non è solo storia di contratti, né solo storia di intervento pubblico e di azioni filantropiche. La storia che va dai Monti di Pietà dei francescani nel Medioevo all’economia di comunione ed al commercio equo e solidale di oggi non può essere compresa nella sua pienezza, se non si prende in considerazione l’agape che è alla base della loro nascita e sviluppo. In questo senso credo che vada rivisto in funzione agapico anche il principio di sussidiarietà, finora visto solo in versione verticale, cioè nel rapporto tra i diversi livelli della pubblica amministrazione. Credo necessaria una nuova declinazione di questo principio fondamentale della vita civile.

Come?
Non faccia il contratto ciò che può fare l’amicizia, e non faccia l’amicizia ciò che può fare l’agape. è bene ricordare un giurista aquilano discepolo di Antonio Genovesi, Giacinto Dragonetti, che nell’introduzione del volume Delle virtù e dei premi (1766) scrisse: “Gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti, e non ne hanno stabilita pur una per premiare le virtù”. Per Dragonetti la virtù è associata al bene pubblico e l’agape è la pietra angolare della civitas.

Quindi l’agape è collegata alla felicità, che è il fondamento dell’economia civile?
L’economia civile è un’antica tradizione italiana, che ha la sua origine nell’umanesimo civile. Nel ‘400 italiano le regioni della Toscana, Umbria e Marche furono molto importanti per lo sviluppo economico e commerciale; poi nel secolo XVIII a Napoli ci fu una nuova primavera con il pensiero economico di Antonio Genovesi, che diceva che lo scopo ultimo dell’economia non è la ricchezza, ma la felicità pubblica. In questa prospettiva, la crescita di un Paese è importante solo ed in quanto migliora il benessere delle persone. Se il PIL (Prodotto Interno Lordo) che cresce dovesse impoverirci, perché si inquina l’ambiente o i rapporti interpersonali peggiorano, l’economia - direbbe Genovesi - fa del male, perché l’economia è buona quando rende la qualità della vita migliore. Quindi oggi l’economia civile sta tornando di moda in un mondo di scarsità di beni ambientali e di beni sociali come il nostro, dove abbiamo molte merci e pochi rapporti. Questa antica tradizione italiana è molto importante e molto attuale. Con altri autori la sto rilanciando nella prassi e nella teoria economica contemporanea.

Un ritorno alla felicità pubblica, che è una parola non più di moda…
Non è di moda, perché si è perso il significato pubblico della felicità. Nei giorni del terremoto in Abruzzo si è capito cosa voglia dire quando un Paese ha anche un corpo. Quando siamo nella normalità, nell’abbondanza ci dimentichiamo che il Paese è una comunità, un corpo, che la felicità quindi riguarda tutti. Quando c’è una calamità naturale si risente questa appartenenza ad una dimensione più grande della nostra famiglia. La felicità pubblica dice che questa dimensione deve essere la normalità e non l’eccezione. Pensare il Paese come una famiglia, dove stiamo bene tutti o non sta bene nessuno, dove esistono molti interessi comuni rispetto ai conflitti di interesse. Invece, negli ultimi decenni, si è sfilacciato il tessuto sociale che teneva insieme il Paese e oggi si guarda l’altro come un rivale e non come un alleato. Questo è un segnale di decadenza che va assolutamente rettificato.

La felicità pubblica implica anche il concetto del dono.
Il dono con le sue ambivalenze è un’esperienza complessa: il dono in un certo senso obbliga. Tale concetto bisogna metterlo in conto in una civiltà che non fa più doni o che non li vuole più accettare, purché non siano gadget od offerte nei saldi. Nessuno vuole più il dono vero, perché ha paura di esporsi all’altro. è una civiltà che si intristisce. Il grande segnale di qualcosa che non funziona oggi è la mancanza di gioia, tipica di un mondo dove la dimensione del rapporto con l’altro era importante. Ma sono ottimista: andiamo avanti, ce la faremo.

Cosa ha a che fare con tutto questo l’economia di comunione?
Ha a che fare perché è una parte dell’economia civile, perché punta alla felicità pubblica, si occupa di quelle parole chiave che hanno fatto l’umanesimo cristiano e civile. L’Economia di Comunione è un progetto importante ed innovativo di imprenditori, lavoratori, dirigenti, consumatori, risparmiatori, cittadini, studiosi, operatori economici, lanciato da Chiara Lubich nel maggio del 1991 a San Paolo in Brasile. Obiettivo: costruire e mostrare una società umana dove, ad imitazione della prima comunità di Gerusalemme, “nessuno tra loro è indigente”. Le imprese sono l’asse portante del progetto. Queste si impegnano liberamente a mettere in comunione i profitti secondo tre scopi e con pari attenzione: aiutare le persone svantaggiate, creando nuovi posti di lavoro e sovvenendo ai bisogni di prima necessità, con progetti di sviluppo; creare un’impresa, che deve restare efficiente e competitiva pur se aperta alla gratuità; diffondere la cultura del dare e della reciprocità. L’economia di comunione nasce da una spiritualità di comunione, vissuta nella vita civile; coniuga efficienza e solidarietà; punta sulla forza della cultura del dare per cambiare i comportamenti economici; non considera i poveri come un problema, ma come una risorsa preziosa.

da Nuovo progetto settembre 2009

 

 

 

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