Ricordare Babij Jar

Pubblicato il 16-11-2021

di Matteo Spicuglia

Settembre 1941. Esattamente 80 anni fa. La popolazione di Kiev, in Ucraina, non si era ancora abituata all'arrivo dell'esercito nazista: i nuovi padroni, da dieci giorni in città, al posto dell'Armata Rossa. I sovietici si erano ritirati, ma non fecero sconti, minarono gli edifici occupati dai tedeschi facendoli saltare in aria: decine di morti, tra soldati e civili. Dopo la guerra si scoprì che le SS erano a conoscenza dei veri responsabili, ma non ne tennero conto. Quell'attentato diventò il pretesto micidiale per liquidare la presenza degli ebrei della città. La maggioranza era già evacuata ad Est, ne erano rimasti circa 60mila, in gran parte anziani, ammalati, donne e bambini. La mattina del 27 settembre, i muri di Kiev città furono tappezzati di centinaia di manifesti. Il messaggio era chiarissimo, pena la fucilazione intimava ai «giudei di presentarsi lunedì 29 alle 8 del mattino» al cimitero russo e quello ebraico portando documenti, denaro, gioielli e vestiti.

I più pensarono a un trasferimento, a deportazioni di guerra, non a quello che sarebbe avvenuto a breve. Nel luogo indicato c'era qualcosa che sfuggiva alla comprensione: nessun treno per partire, ma solo grandi cumuli di bagagli e vestiti. La gente arrivava e veniva costretta a lasciare tutto. Nel sottofondo, raffiche ripetute di mitra, la violenza dei soldati, un destino segnato. Impossibile ribellarsi, cercare di scappare. Lo scrittore Anatolij Kuznecov, testimone oculare di quella follia, ricorda l'immagine di una anziana che correva, seguita da un bambino spaventato. Lei che provava a calmarlo, ma inutilmente. Due soldati dietro, gli spari, nonna e nipoti uccisi davanti a tutti.
Quel terrore serviva per annientare ogni possibile reazione. La macchina del male non poteva incepparsi, avrebbe dovuto portare a compimento quanto programmato. Quella colonna di vite innocenti venne così condotta verso il fossato di Babij Jar, una voragine profonda ai margini della città. Qui gli ebrei vennero fatti spogliare per poi arrivare a gruppi di dieci sul ciglio del burrone.

A raccontare cosa avvenne è Kurt Werner, uno dei soldati presenti: «Subito dopo il mio arrivo sul terreno delle esecuzioni dovetti scendere con altri camerati in questa conca. Non passò molto tempo che già i primi ebrei ci vennero condotti giù per le pareti della voragine lungo le quali dovettero sdraiarsi faccia a terra. Nella conca si trovavano tre gruppi di tiratori, in tutto 12. Gli ebrei venivano condotti di corsa, tutti assieme, dall'alto verso questi tiratori. Gli ebrei che seguivano dovevano sdraiarsi sui cadaveri di quelli precedentemente fucilati. I tiratori stavano di volta in volta dietro gli ebrei e li uccidevano con colpi alla nuca. Mi ricordo ancora oggi in quale stato di terrore cadevano gli ebrei che di lassù, sull'orlo della voragine, potevano per la prima volta scorgere i cadaveri sul fondo: molti gridavano forte per lo spavento. Non ci si può nemmeno immaginare quale forza nervosa richiedesse eseguire laggiù quella sporca attività. Era una cosa raccapricciante...

Dovetti rimanere tutta la mattina giù nella voragine. Lì dovetti continuare a sparare per un certo tempo, poi fui impegnato a riempire di munizioni i caricatori della pistola mitragliatrice.
Durante questo tempo furono impiegati altri camerati come tiratori. Verso mezzogiorno fummo fatti uscire dalla conca e nel pomeriggio io, con altri, dovetti condurre gli ebrei fino alla conca. In questo tempo altri camerati sparavano giù nella conca. Gli ebrei venivano condotti da noi fino all'orlo della conca e da lì correvano giù da soli lungo il pendio.

Tutte le fucilazioni di quel giorno possono essere durate all'incirca fino... alle 5 o alle 6 di sera».
In due giorni, a Babij Jar, morirono in 35mila. Oggi ricordarli significa restituire a volti, storie, persone come noi almeno la dignità di esistere.


Matteo Spicuglia
NP agosto / settembre 2021

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