Report from Timor Est 2005-2010
Pubblicato il 10-04-2025
Nella mia geografia fisica e mentale, ogni volta che ripenso a Timor non riesco a fare a meno di ricordare quel viaggio in quella terra dell’ormai remoto 2005, quella fu la prima volta che ho avvertito veramente la distanza.
Timor Est è un isola a sud dell’arcipelago indonesiano e a nord dell’Australia, grande forse un quinto di Cuba che, oltre alle palme, ai frutti esotici e al bel mare, condivide il carattere ospitale e rivoluzionario dei suoi abitanti, come anche il caffè e il tabacco.
Mi ci recai un paio di volte nell’arco di cinque anni. Sono trascorsi cinquant’anni da quando nel 1975 la dittatura indonesiana con il sostegno dell’occidente occupò militarmente Timor Est. Tuttavia, il popolo di Timor con una resistenza esemplare ottenne venticinque anni dopo l’indipendenza: alla luce dei recenti fatti geopolitici, riguardando alla sua lotta, quella resilienza potrebbe rappresentare un precedente per la soluzione della questione palestinese.
Dopo aver combattuto una guerra cruenta durata ventiquattro anni, il 20 maggio 2002, la Repubblica Democratica di Timor Est si è unita alla Comunità Internazionale come nazione indipendente.
La prima volta che la raggiunsi sperimentai un contesto dove le stigmate della guerra erano ben evidenti come ferite non del tutto guarite: abitazioni abbattute e tra le macerie povertà diffusa. La carenza d’infrastrutture non impediva il viavai del poco traffico dei mezzi ONU e quelli delle organizzazioni umanitarie. Io rimasi stupito di non vedere pescatori.
La chiesa cattolica ha fatto molto per sostenere la popolazione di Timor negli anni della guerra, le chiese e le cappelle originariamente portoghesi furono difese, ma non del tutto risparmiate. Posso testimoniare di aver visto ovunque sparsi sul territorio strutture religiose come conventi e seminari trasformati in scuole e oratori e orfanotrofi. Credo per non disperdere le nuove generazioni, soprattutto quei giovani che non avevano più famiglia. Vidi molti ragazzi tornare a praticare sport dopo anni di terrore.
La popolazione non è rimasta indifferente e la fede ha vinto: sono infatti più di un milione gli abitanti di Timor Est che si dicono cattolici. Mi raccontavano che quando papa Wojtyla atterrò a Timor Est nel 1989, nel pieno della rivolta per l’indipendenza del Paese, il papa polacco che amava baciare la terra ogni volta che scendeva la scaletta dell’aereo, quel giorno rifiutò per non dover riconoscere l’occupazione indonesiana.
Dili pur essendo poco più che un paese è di fatto la sua capitale, bella e decadente nel suo tipico stile coloniale, dista parecchi chilometri dagli altri centri abitati che in verità sono tutti scomodi da raggiungere, almeno all’epoca quando mancavano ancora le strade.
Sulla mia Jeep c’era don Carbonel, un missionario di Jakarta che ha accettato di seguirci come mediatore politicoburocratico: «Padre mi dica – gli chiesi durante un lungo trasferimento – non capisco perché le persone che abbiamo incontrato si ostinino a vivere lungo le strade più interne, oppure sulle colline laggiù nell’entroterra…
Se s’insediassero in prossimità della costa potrebbero godere della pesca, delle palme e del mare, non crede?».
«Ascoltami – mi disse – ti darebbero volentieri tutte le ostriche, le aragoste e i pesci spada che desideri in cambio di una gallina o anche di un solo uovo!».
Il fatto è che da quando è finita la guerra preferiscono mangiare carne, perché la carne sull’isola è poca, ma in realtà se ne stanno sulle colline perché lassù sopra le risaie si sentono sicuri e protetti.
L’industria è un settore pochissimo sviluppato: ho documentato un bulldozer nuovo di pacca abbandonato nel letto di un fiume soltanto perché non c’era nessun meccanico in grado di cambiare una vite e la Caterpillar sull’isola non faceva assistenza.
Timor Est ha un suolo fertile, aree coltivabili e una storia centenaria di caffè e tabacco, ma gli analisti che consigliano questa strada per risollevare l’economia in sofferenza del Paese vengono sommariamente ostacolati da chi ha beneficiato delle ricchezze del sottosuolo: petrolio e gas, in testa, che rappresentano l’85% delle entrate dello Stato.
Timor probabilmente è uno degli ultimi paradisi terrestri, oggi meta di un turismo esclusivo che non sarà mai di massa, ed è un peccato per il mercato del lavoro locale che potrebbe offrire occupazione in abbondanza, anche all’industria, all’agricoltura se la popolazione fosse adeguatamente formata. Nel frattempo sono finalmente ritornati i pescatori.
Luca Periotto
NP PLUS
NP gennaio 2025