Radici da custodire
Pubblicato il 09-04-2025
La memoria degli eccidi nazifascisti: un monito per l’oggi. La testimonianza di Agnese Pini, nipote di una vittima.
Palmira nel 1944 era una donna di 58 anni. Rimasta nel suo paese mentre il mondo fuori crollava.
Gli ultimi mesi di guerra, la violenza gratuita degli occupanti tedeschi e dei loro complici italiani che insanguinarono decine di località, tra tutte Sant’Anna di Stazzema o Marzabotto.
Palmira è una delle 159 vittime di un altro eccidio: quello avvenuto a San Terenzo Monti, un pugno di case sulle Alpi Apuane, in provincia di Massa Carrara. Dopo 80 anni è stata sua nipote a ricucire le maglie della sua storia: Agnese Pini, giornalista, direttrice del Quotidiano Nazionale, autrice del libro Un autunno d’agosto.
Cosa sappiamo di quella strage?
Tutto. Era il 19 agosto del 1944. Siamo sulla Linea Gotica che rappresenta l’estrema difesa nazifascista contro l’avanzata angloamericana. Tra il 12 agosto e la fine di settembre abbiamo il periodo più buio: oltre 2mila morti tra donne, bambini e anziani. Uccisi dallo stesso battaglione tedesco comandato dal maggiore Reder, temuto e odiato, senza un braccio perso durante la campagna contro l’urss. Non aveva neanche trent’anni ed era stato capace di ordinare lo sterminio di tutti questi civili che pensavano di essere immuni dalla violenza perché gli adulti maschi erano scappati e perché vivevano in montagna.
Per i nazisti però, tutti i civili erano nemici, potenziali sostenitori dei partigiani. Anche a San Terenzo.
Palmira che donna era?
La mia bisnonna aveva 58 anni ma dalle foto sembrava più vecchia. Era analfabeta, contadina nelle proprietà altrui. Aveva solo una piccola vigna che fu teatro di una parte della strage. L’altra fu una fattoria alle porte del paese. Quei luoghi oggi sono abbandonati, il simbolo della guerra che tramuta la vita in morte. Anche nelle famiglie.
È successo anche alla sua?
Sì, mia nonna, figlia di Palmira, si salvò per un caso perché riuscì a fuggire a La Spezia.
Non volle mai parlare della tragedia, neanche con sua figlia, mia mamma. Lo ha fatto solo negli ultimi anni della sua vita perché forse aveva imparato a convivere meglio con il dolore. Con me piccola ne parlava, forse perché tra anziani e bambini c’è una vicinanza particolare. Ma di certo ho fatto mia questa storia solo da adulta, quando finalmente ho maturato il desiderio di capire veramente chi ero e soprattutto da dove venivo.
Fare i conti con il dolore è difficilissimo. Cosa è successo a San Terenzo dopo la guerra? Chi è rimasto? Come si è alimentato il ricordo?
Il dolore è difficilissimo da comunicare, perché crea imbarazzo e non empatia e perché si ritiene di non essere veramente compresi e accolti.
Per questo è stato così difficile tramandare il ricordo. L’oste del paese, per esempio, perse cinque figli e la moglie, per lui era impossibile trovare qualcuno che potesse comprendere la sua sofferenza. Per comunicare serve una pace interiore che però non tutti riescono a raggiungere. Questo vale per la dimensione intima e individuale, ma c’è anche una dimensione civile che ci permette di sentirci membri di una patria.
Ci siamo riusciti?
Il nostro Paese ha un rapporto complesso con il suo passato e questa fatica ci rende immaturi e non ci permette di condividere pienamente i valori costituzionali.
Se non riconosciamo questi avvenimenti e le responsabilità la nostra democrazia ne soffrirà. La memoria è ancora relegata all’ambito famigliare e non ancora un patrimonio di tutta la comunità nazionale.
Noi dovremmo costruire sulla memoria condivisa di oltre 60mila di vittime di crimini di guerra e 30mila deportati non tornati. Al contrario, la maggior parte di queste persone non ha mai avuto giustizia. E la mancanza di una verità giudiziaria impedisce di avere una verità storica accettata.
È successo anche per San Terenzo Monti…
Sì, gli angloamericani documentarono scientemente i crimini, ma i primi governi repubblicani decisero di insabbiare i processi. Negare la giustizia vuol dire negare la dignità delle persone, il loro valore. Mia nonna è morta nel 1996, il processo è arrivato solo molti anni. Per troppi anni, le istituzioni hanno lasciato quelle morti nell’oblio, quasi non ci fossero state.
Eppure quelle stragi ricordano il prezzo pagato da tanti innocenti per la libertà di cui tutti noi beneficiamo. Come si fa a non darla per scontata?
La libertà ha a che fare con la dignità di essere riconosciuti come cittadini ed essere umani e con la giustizia. La giustizia è prima di tutto empatia; il senso di giustizia nasce quando riconosci l’altro, lo senti come te. Allora il torto subito da lui, diventa anche tuo e così puoi indignarti e impegnarti per ristabilire la giustizia. Anche le recenti vicende del Medio Oriente dimostrano come il conflitto tra palestinesi e israeliani non riesca a fermarsi: il problema è la mancanza del reciproco riconoscimento, dell’incapacità di sentire il dolore dell’altro come il proprio.
Pace, lavoro, sicurezza, tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta non possono essere esclusiva di qualcuno a scapito dell’altro.
Le nuove generazioni sono ricettive in questo senso?
Diversi mesi fa ho parlato in una scuola media e un ragazzino di 12 anni mi ha spiazzata con una domanda. «Questi soldati di 18 anni che hanno compiuto le stragi non erano costretti a obbedire?». Avrei potuto dire che non si obbedisce a ordini omicidi. Però non volevo dare risposte che sembrano finte perché calate dall’altro. Montale ha scritto che dalla storia non impariamo nulla. È vero altrimenti non avremmo avuto tutte le atrocità a cui assistiamo oggi in Ucraina o in Medio Oriente.
La verità è che la situazione estrema della guerra porta gli individui – e quindi potenzialmente ciascuno di noi – a compiere crimini inauditi. Io sono più ottimista di Montale e penso che conoscere la storia ci renda più consapevoli per scegliere la parte giusta.
Un passaggio non immediata, che richiede allenamento morale ed etico per l’amore e la giustizia, un cammino di crescita che ci permetta di immunizzarci alla violenza e alle scelte estreme.
Matteo Spicuglia
Focus
NP gennaio 2025