Popoli liberi

Pubblicato il 29-08-2025

di Edoardo Greppi

L’articolo 1 di entrambi i Patti delle Nazioni Unite sui diritti umani del 16 dicembre 1966 (uno relativo ai diritti civili e politici e l’altro ai diritti economici, sociali e culturali) recita: «Tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale».

Dunque, il diritto internazionale pone questo principio del diritto all’autodeterminazione dei popoli al primo posto del “catalogo” che le Nazioni Unite hanno adottato e codificato in due grandi trattati multilaterali.Ma quale reale portata ha questo principio nella comunità internazionale? Una prima osservazione si impone: molto spesso viene richiamato a sproposito, cioè con riferimento a situazioni alle quali non si applica. In altre parole, il campo di applicazione di questo diritto è piuttosto ristretto. La stessa nozione di popolo è di difficile qualificazione giuridica.

La Corte internazionale di giustizia, il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, ha autorevolmente affermato che l’autodeterminazione – nella prassi degli Stati e delle organizzazioni internazionali – si applica soltanto ai popoli soggetti a un governo straniero (autodeterminazione esterna), in primis a quelli sottoposti a una dominazione coloniale (ormai consegnata alla storia), e poi alle popolazioni di territori conquistati e occupati con la forza armata. Questo è il caso dei territori occupati da Israele a partire dalla Guerra dei sei giorni del 1967. Infine, il diritto è riconosciuto ai gruppi “etnico-razziali-religiosi” discriminati così gravemente a livello politico e sociale dalle autorità centrali da non essere in alcun modo rappresentati nelle assise di governo (come succedeva alla maggioranza di colore in Sudafrica all’epoca dell’apartheid).

Come ha sottolineato la Corte, l’autodeterminazione si traduce nel diritto di un popolo sottoposto a dominazione straniera di diventare indipendente e di scegliere il proprio regime politico e costituzionale.

Essendosi formato dopo la Seconda guerra mondiale, poi, il principio non può essere fatto risalire indietro nel tempo, salvo nel caso di dominazione coloniale. Insomma, il riferimento è corretto per quanto riguarda la Palestina o il Sahara ex spagnolo sottoposto al Marocco, mentre sono chiaramente impropri i richiami a questo principio per giustificare pretese politiche di “indipendenza” avanzate per entità come il Quebec, la Catalogna o la Scozia, per non dire della c.d. “Padania”. Per quanto riguarda il Quebec, alcuni anni fa la Corte Suprema del Canada negò l’autodeterminazione alla sua popolazione – che pure costituisce una minoranza linguistico-religiosa – appunto perché quella minoranza non era affatto discriminata a livello politico centrale.

Lo stesso discorso vale per la “Padania”, che è soltanto un’entità geografica, anche se ha le sue tradizioni e ha dato vita a un partito politico (che ha sempre espresso ministri al governo). Quindi, parlare per essa di autodeterminazione e secessione – come aveva autorevolmente scritto il compianto professor Antonio Cassese, «è parlare a vanvera». Ovviamente nemmeno si potrebbe invocare il diritto all’autodeterminazione “interna”, che è il diritto universale a un sistema rappresentativo, pluripartitico e democratico. Questo sistema è già pienamente e costituzionalmente attuato in Italia.

La nostra Costituzione, poi, è chiarissima in materia. L’articolo 5 proclama che la Repubblica è una e indivisibile, anche se attenta alle esigenze dell’autonomia e del decentramento amministrativo. Neppure l’Alto Adige, una provincia caratterizzata da una forte minoranza linguistica, e i cui rappresentanti politici avevano invocato per anni la secessione, l’ha ottenuta, perché contraria alla Costituzione.

In altri termini, il principio del diritto all’autodeterminazione non può essere interpretato come idoneo ad avallare le spinte secessioniste di regioni o province più o meno autonome. Questo discorso vale con riferimento agli ordinamenti costituzionali degli Stati che conoscono spinte secessioniste, come il Regno Unito o il regno di Spagna.

Il 19 luglio 2024, la Corte internazionale di giustizia ha emesso un parere consultivo sulle conseguenze giuridiche derivanti dalle politiche e dalle pratiche di Israele nei Territori Palestinesi Occupati e sulle conseguenze della condotta di Israele per gli altri Stati. Il parere consultivo afferma che l'occupazione israeliana dei territori palestinesi è una chiara violazione del diritto internazionale. In questo caso, cioè, siamo in presenza di un evidente diniego del diritto all’autodeterminazione, quale inteso dall’ordinamento internazionale.

Israele considera la Cisgiordania un territorio conteso, il cui futuro dovrebbe essere deciso nell’ambito di negoziati, sebbene vi abbia trasferito popolazioni nelle colonie per consolidare la propria posizione. Inoltre, ha annesso Gerusalemme est con azioni non riconosciute a livello internazionale, mentre si è ritirato da Gaza nel 2005 pur mantenendo il blocco del territorio a seguito della presa di potere di Hamas nel 2007. La comunità internazionale considera tutte e tre le aree come territori occupati.

In definitiva, la Corte dell’Aja ha ritenuto che la continua presenza di Israele nei Territori palestinesi occupati è illegale, ritenendola contraria al divieto dell'uso della forza nelle relazioni internazionali e al suo connesso principio del divieto di acquisizione territoriali con la forza.


NP Maggio '25
Edoardo Greppi

 

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