Pane e libertà
Pubblicato il 09-04-2025
È bene non stancarsi di riflettere e di interrogarsi sulla libertà.
Al tempo stesso non si può fare a meno di riconoscere come in una simile impresa subito ci s’imbatta in continue difficoltà e insistenti aporie, quasi fosse impossibile procedere lungo questo percorso, sviluppare questo discorso, con un minimo di rigore e di stabilità. In effetti, non appena si varca una soglia, ecco che immediatamente si aprono molte porte, ognuna delle quali conduce verso altre soglie e altre porte, e così via. Qui di seguito mi limito a indicare, tra i molti possibili, solo due tra gli snodi fondamentali del nostro tema.
Innanzitutto, vi è quello che si può definire il «desiderio della libertà».
Tutti affermano il valore della libertà, tutti sostengono la necessità di garantire e difendere la libertà, ma spesso una simile insistenza, che non a caso evolve in quello che è uno dei «luoghi comuni» più diffusi nelle nostre società liberali, tende a dare per scontato che si desideri veramente essere liberi. A tale riguardo converrebbe concedersi il dubbio di qualche dubbio.
Il salmo 33 recita: «C’è qualcuno che desidera la vita e brama lunghi giorni per gustare il bene?». Si potrebbe affermare lo stesso della libertà: c’è qualcuno che desidera essere libero? Dove la «vita» e la «libertà» si configurano come beni per nulla ovvi e scontati, naturali e neutrali, essendo piuttosto realtà che attendono inevitabilmente di essere riconosciute, coltivate, difese, custodite, in una parola, per l’appunto, desiderate. A tale riguardo gli ostacoli più seri alla libertà – ecco, a mio modesto avviso, l'aspetto più inquietante dell'intera questione – non provengono solo dall'esterno del mondo ma si sviluppano soprattutto all'interno del nostro stesso modo d'essere. Spesso ci lamentiamo delle circostanze che limitano la nostra libertà, ma siamo sicuri che è proprio alla libertà che aneliamo? Non siamo forse più interessati, ad esempio, alla sicurezza, alla tranquillità, talvolta persino al puro e semplice benessere?
L'antico lamento non cessa così di risuonare: «Nel paese d'Egitto eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà!» (Es 16,3). Seneca, un maestro di umanità, non si stanca di ricordacelo: «È così, Lucilio: pochi sono schiavi per necessità; i più lo sono volontariamente» (Lettera 22). Ma forse la lezione più severa e sincera, ma al tempo stesso anche terribile, su questo punto è quella fornita dal Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov: «Nessuna scienza darà loro il pane, finché rimarranno liberi, ma essi finiranno per deporre la loro libertà ai nostri piedi e per dirci: “Riduceteci piuttosto in schiavitù, ma sfamateci!” […] Io ti dico che non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura […] Col pane ti si dava una bandiera indiscutibile: l’uomo s’inchina a chi gli dà il pane, giacché nulla è più indiscutibile del pane […] Avevi forse dimenticato che tranquillità e perfino la morte è per l’uomo più cara della libera scelta fra il bene e il male? Nulla è per l’uomo più seducente che la libertà della sua coscienza, ma nulla anche è più tormentoso ».
In secondo luogo: per chi o per che cosa affermiamo di voler essere liberi?
In effetti, l’essere liberi- da non è mai separabile dall’essere liberi-di; certo, la libertà è un valore in sé, ma spesso l’enfasi su tale valore finisce per mettere in ombra il fine stesso in vista del quale si dichiara di voler essere liberi. In tal modo è come se ci si accontentasse, eventualmente e se mai sarà possibile, di essere liberi per essere liberi e non per tentare di raggiugere quello o quell’altro obiettivo. O forse meglio: è come se il solo vero obiettivo coincidesse con quell’astratta rivendicazione della propria autonomia all’interno della quale «il desiderio della vita» e il «gusto per il bene» di cui parla il salmo si dissolvono e perdono di significato.
Nel Paradise lost di Milton a un certo punto Satana, dopo la sconfitta subita a opera delle schiere degli angeli fedeli, afferma: «Addio, campi felici, / dove la gioia regna eternamente! E a voi salute, orrori / mondo infernale […] La mente è il proprio luogo / e può fare un ciel dell’inferno, un inferno del cielo. / Che cosa importa se rimango me stesso; e che altro / dovrei essere allora se non tutto, e inferiore soltanto / a lui che il tuono ha reso il più potente?
Qui almeno / saremo liberi […] a mio giudizio /regnare è una degna ambizione, anche se sopra l’inferno: / meglio regnare all’inferno che servire in cielo» (libro I, versetti 24-263). Alla fine, sembra che a Satana non resti altro che essere «libero», come se l’esaltazione della propria libertà si configurasse come una sorta di consolazione («qui almeno saremo liberi»), di una tragica consolazione che riesce a consolare, se di consolazione si può parlare, solo a costo di un prezzo iperbolico: «Così speranza addio, e insieme alla speranza addio paura, / addio rimorso! E se per me tutto il bene è perduto, / male sii tu il mio bene» (libro IV, versetti 107-110).
Silvano Petrosino
Focus
NP gennaio 2025